Dopo gli scandalosi manifesti di Valentine de Saint-Pont, Enif Robert offre il suo contributo con un romanzo sconvolgente: Un ventre di donna. Romanzo chirurgico. Lo pubblica il solito Facchi, nell’ottobre del 1919, con una copertina a colori di Lucio Venna, ma una parte della tiratura apparve senza questa immagine, col semplice titolo e la scritta «Marinetti e Signora Robert». Marinetti compare come co-autore con delle lettere scritte all’autrice.
Già la copertina dice tutto. Lei è bella, ricca, elegante, è la donna nuova che non tollera più il predominio maschile e le convenzioni sociali. Accanto a lei il barbogio professore che scrive calcola e medita chino sulle carte come il burocrate che deve espletare una pratica. Lei guarda altrove, è volubile è snob. Ha un marito che amerebbe davvero se solo non fosse così buono, così perfetto, così premuroso. La sua intelligenza e la sua prontezza di spirito la fanno sentire superiore a qualunque maschio arrogante, non ha bisogno di credere in Dio né in qualunque cosa che sembri sacra. Ma un dolore nel ventre comincia a tormentarla. Enif racconta la sua malattia, e l’esperienza terribile di una medicina che nulla può capire della sensibilità femminile. Che la donna fosse il suo ventre e non il cuore o il cervello nessuno prima lo aveva pubblicamente espresso, cosa prova una donna quando le frugano dentro, tagliano e asportano, lì nel paradiso dove si forma la vita. L’atto che dovrebbe guarirla, l’operazione chirurgica, non fa che estraniarla sempre di più dal proprio corpo e si mostra qual è, l’irruzione del mondo che crede di sapere cosa è giusto e cosa fa bene, che cosa è salute e cosa malattia.
Enif non vuole guarire, come può non capirlo un medico, il suo male è la protesta più violenta contro l’ipocrisia del mondo, è il corpo che attraverso il dolore non si lascia annichilire.
Il romanzo compone frammenti di vita, lettere, messaggi, incontri, non procede come una storia ma come una serie di sensazioni e di visioni, come sotto l’effetto della morfina. Fra i personaggi che lo animano ci sono in particolare Eleonora Duse a lei carissima – Enif era attrice – e Filippo Tommaso Marinetti.
L’amicizia di Marinetti, il suo entusiasmo contagioso e la carica antiautoritaria del futurismo, l’aiutano a passare attraverso l’inferno e a ritrovarsi donna nel modo più autentico, cioè “coraggio + verità”, che nella prefazione le fa dire: “Un bel giovanotto dalle maschie fattezze è il tuo sole e il tuo giardino. Ma dì, dunque, con rude franchezza il tuo desiderio umano e carnale, quale te lo suggerisce la tua sensibilità legittima e consapevole; parla del tuo diritto sensuale e fecondo, senza impasticciarlo con analogie di raggi e di profumi assolutamente estranei alla tua nudità che canta l’amore” (pag. XIII).
Marinetti le scrive dal fronte, e continua è la similitudine fra la guerra e la malattia. La malattia come la guerra è conflitto, polemos padre di tutte le cose, scopre l’umanità nel suo fondamento, la mette di fronte alla morte e al rischio che sempre è la vita. Non si può cancellare, è ipocrita ogni atteggiamento che la nega: la guerra, come la malattia, è prima di tutto dentro di noi, ha radici che affondano nella nostra umanità. Come neghiamo la guerra evitiamo anche di parlare della morte, siamo in fuga da noi stessi, situiamo ogni significato in un’anima o un’essenza mentre noi siamo il nostro corpo, che è fragile e mortale. Non c’è chirurgia che possa servire se non c’è la volontà di vivere e di affrontare il male. E così Marinetti le suggerisce diversi modi per lottare contro la malattia, fra cui predominano l’immaginazione, la creatività e la capacità di desiderare.
Così l’autrice comincia a parlare sul serio del suo male, abbandona lo snobismo dietro cui si nascondeva e lo fa – ovviamente – con futuristissime parole in libertà. Pensare positivamente, aggredire mentalmente il male e annullarlo in immagini meravigliose e sensuali. Sentirsi eroi della vita, sentirsi utili e necessari al mondo, chiedere al proprio corpo tutta l’energia possibile, desiderare tutto il desiderabile: non c’è più paura della morte se in ogni fibra c’è la volontà di sopravvivere. Il romanzo si chiude con l’immagine non della protagonista ma di un’altra donna che si consegna ai medici meravigliosamente nuda. Vuol dire tutto e niente, forse solo che frequentare la morte ci libera da ogni indecenza.