Nello studio di Federico Garolla, proprio dietro la scrivania, era appesa una foto. Nella foto sono raffigurati 5 personaggi attorno a un cartello con la scritta «I cinque candidati alla querela con devozione». I cinque sono Patellani, Giancolombo, Paolo Costa, Franco Fedeli e Federico Garolla, all’epoca in cui lavoravano per la neonata rivista Le Ore, nel 1953. Negli anni Settanta diventerà una delle più famose riviste pornografiche ma allora era fra i giornali che partendo dall’attualità cinematografica sconfinavano nella storia del costume. Chissà perché “candidati alla querela”. Loro erano i fotografi nuovi, quelli che succedevano agli sperimentatori degli anni Trenta, i fotografi che facevano i primi “reportages”, quelli che attraverso le immagini dovevano non più ritrarre persone e paesaggi ma illustrare la cronaca e la storia. E’ l’epoca del “realismo” in arte e in letteratura come nel cinema, ma è anche l’epoca in cui la moda italiana si impone al mondo e l’economia avanza verso il boom che sarà degli anni Sessanta: industria e campagna, ricchezza e miseria, bellezza e sfacelo residuo della guerra si trovano sempre insieme nelle immagini di questi fotografi. Non c’è mai una immagine a senso unico. Non c’è mai nulla di quello che oggi diremmo “patinato”.
Nella foto, in quattro stanno di profilo come delinquenti, chissà cosa avevano combinato. Lo scandalo non sta in quello che rappresenti ma nel come: il come ti dice anche sempre il perché, nel come c’è il pezzetto di verità che cerchi, se lo cerchi.
Credo che quei fotografi fossero perfettamente consapevoli di meritarsi una querela perché quello che cercavano disperatamente in ogni immagine non era la realtà ma la verità – senza maiuscola, s’intende, quella piccola e possibile, con tutti i limiti e le deviazioni, quella che si costruisce con tanta fatica senza ipocrisia. Se esiste qualcosa che faccia talmente arrabbiare questa è la verità. Se c’è qualcosa che scateni l’ira di chi ben pensa questa è ancora e sempre la verità. Ne erano orgogliosi e felici e nella foto si vede. E se Garolla se l’è appesa in studio è perché quello spirito non lo ha mai abbandonato, come gli amici non li ha mai dimenticati.
Erano simili ma anche profondamente diversi. Lui Garolla, napoletano, frequentava e raffigurava il bel mondo che a Roma aveva il suo centro di gravità. La letteratura, il cinema, l’arte, la politica, la moda.
Garolla ha fotografato quel mondo non solo quando si presentava in pubblico ma nell’intimità della casa. Lo chiamavano oppure andavano da lui, volevano proprio lui.
Era il mondo che Pasolini descriveva in Petrolio come una palude di cultura, politica, ricchezza, eleganza, condite da tutta l’ipocrisia e l’indifferenza del potere. Garolla ne distillava l’umanità e la centellinava in immagini che fermavano il tempo.
Attraverso le sue foto c’è il meglio di quell’epoca: le prospettive e le speranze, i buoni propositi per un futuro migliore.
Quale stilista oggi disegnerebbe un vestito accovacciato per terra all’ombra di un camion? Quale showgirl ballerebbe un valzer coi minatori? La dolce vita era anche questo. Quanto amore nei paesaggi del Sud, nel lavoro dei pescatori, nelle volute di un abito delle sorelle Fontana, nei calci al pallone di Pasolini, nel gatto che passeggia sulle spalle di Goffredo Bellonci, nello sguardo assorto di Elsa Morante, ci vuole tenerezza e partecipazione, bisogna sapere cosa buttare e cosa salvare prima che tutto finisca. E quando quel mondo finì, Garolla smise di fotografare le persone. A partire dagli anni Settanta fotografò cose e fece libri, d’arte e archeologia.