Quando Ugo Mulas incontra a Venezia Alan Solomon e Leo Castelli è il 1964: alla Biennale la pop art viene presentata per la prima volta al pubblico europeo. Dello stesso anno è il suo primo viaggio a New York, dove non solo vede all’opera i pop artisti da Stella a Warhol ma incontra autori come Marcel Duchamp e John Cage, senza i quali quella storia sarebbe stata inconcepibile. E non si tratta qui di teorie o di chi sa che criticismi: come sempre è la vita che corre, e Ugo Mulas si lascia attrarre da quell’atmosfera, ci ritorna a più riprese, nel 1965 e poi nel 1967 quando ne presenta il resoconto, il libro d’arte più significativo del dopoguerra. E dico d’arte e non di fotografia perché più ancora dell’arte fotografica quel libro sconfessava il sistema della storia dell’arte, il modo di guardare le opere: New York: arte e persone, pubblicato contemporaneamente negli USA, in Canada e in Spagna. L’uomo mascherato dalla propria opera, la vita quotidiana, il bianco e nero della creazione, perfetta la traduzione inglese: New York: the new art scene, il concetto di scena che sarà tipico di quegli anni per indicare situazioni alternative ai sistemi imposti: teatro dove finzione e realtà, inganno e autenticità si incontrano.
Scrive Ugo Mulas qualche anno più tardi nelle sue Verifiche:
“Oggi la fotografia con i suoi derivati, televisione e cinema, è dappertutto in ogni momento. Gli occhi, questo magico punto di incontro fra noi e il mondo, non si trovano più a fare i conti con questo mondo, con la realtà, con la natura: vediamo sempre più con gli occhi degli altri. Potrebbe anche essere un vantaggio; migliaia di occhi invece di due, ma non è così semplice. Di queste migliaia di occhi, pochi, pochissimi, seguono un’operazione mentale autonoma, una propria ricerca, una propria visione. Anche inconsapevolmente, le migliaia di occhi sono collegate a pochi cervelli, a precisi interessi, a un solo potere. Così, inconsapevolmente, anche i nostri occhi, anziché trasmetterci informazioni genuine, magari povere, scarne, ma autentiche, ci investono con infinite informazioni visive, doppiamente stordenti, perché spesso la loro falsità si cela sotto una sorta di splendore. Si finisce col rinunciare alla propria visione che ci pare così povera rispetto a quella elaborata da migliaia di specialisti della comunicazione visiva; e a poco a poco il mondo non è più cielo, terra, fuoco, acqua: è carta stampata, fantasmi evocati da macchine sempre più perfette e suadenti“.
Cambiamo scena, torniamo indietro, agli anni Cinquanta. Si dice che Ugo Mulas cominciasse a scattare fotografie nel 1953 al bar Jamaica, il ritrovo degli artisti, pazzi e scombinati che animavano Milano. Ma quel che affascinava Mulas in quel periodo non era l’arte fotografica, era la poesia. Ho tra le mani questo foglio scritto fittamente da lui fronte retro, una lettera indirizzata a Mario Cerroni, poeta iscritto al partito comunista e animatore di riviste e situazioni nel clima del neorealismo in letteratura. La lettera non è datata ma dal contesto si evince che siamo alla vigilia della pubblicazione della rivista Situazione, pubblicata a Udine nel 1955 da Cerroni e Domenico Cadoresi. Siamo nel pieno della polemica fra il gruppo torinese e quello friulano di Cerroni e Cadoresi in seno alla rivista Momenti. Proprio in seguito a queste polemiche, Momenti cesserà le pubblicazioni col n. 18 del maggio/giugno 1954. Riporto qui il testo integrale:
“Mio carissimo Mario, cosa dirai del mio lungo silenzio? Ho ricevuto la tua lettera e il “programma”. Domani ti spedirò le copie dattiloscritte. Non sono un abile dattilografo e ho dovuto ricorrere a una mia amica, ho atteso a scriverti e anche per quelle 500 lire che non riesco a mettere insieme. Abbi pazienza! Sono entusiasta delle vostre decisioni. Ne ho parlato alla Stipi ed anch’essa ne è rimasta molto colpita. Sono felice di essere stato a Udine e di aver contribuito a chiarire alcune idee che sono nel programma. Ma soprattutto sono felice di aver respirato la tua aria, di essermi sentito dalla tua parte e di averti sentito dalla mia. Credevo di essere solo. Anche di Cadoresi conservo un ricordo vivissimo. Sono certo che potreste fare molto di più se la rivista fosse in vostre mani. I torinesi mi sembrano più formali, più freddi; respirano aria di vecchie glorie sono, come dire, schiacciati da Gobetti e Gramsci. Difficile fare una rivista dopo quei precedenti. Voi avete questo vantaggio: di lavorare su terra vergine, di non essere circondati da vecchi salotti. Bisogna fare una rivista e si farà. Voi la farete. Perché la rivista non c’è e tutti sentono che questo è il momento. Coraggio ci vuole. Bisogna partire con almeno tre o quattro numeri pronti, almeno nelle cose basilari. Per non farci venire il fiato grosso. Bisogna anche sentirci sicuri alle spalle.
E’ la questione, secondo me primaria, dei “nomi”, delle “firme”. La gente vuole delle garanzie? E perché non accontentarla? Le allodole giocano solo negli specchietti? Bene, si daranno loro gli specchietti. Poi, quando saranno a tiro, non ci scapperanno più, con o senza specchietti. Ho voluto ripetere queste mie idee pratiche, un po’ machiavelliche, ma forse essenziali per la fortuna di una rivista che vuol essere di cultura ma che deve fare i conti col cassetto dei soldini, come qualsiasi altra rivista, sia d’informazione, sia di corrente, sia popolare, sia aristocratica. Anzi, più ancora di queste, perché il nostro pubblico è più difficile e più ristretto. Tu hai già una tua rete di conoscenze, dei centri, dei fedelissimi, e questo è molto, soprattutto per incominciare. A Torino dovranno accettare le nostre proposte. In caso contrario, già che si deve cambiare il titolo, perché non cambiare addirittura rivista? Domenica ci riuniremo a Brescia. I cinque o sei più sicuri. Ma al momento buono potremmo essere in trenta o forse anche più. Basta far leva sulle ambizioni di tanta buona gente che non ha avuto fortuna. Sempre più machiavellico? Forse oggi sono anche cattivo. Ho letto in un libro che in questo mondo costruisce più la cattiveria che la bontà. E’ un bel paradosso. Attendo quelle tue poesie. E anche quelle di Cadoresi. Sto lavorando alle mie. Ho scritto molto in questi giorni. Mi sembra di aver imparato a raccontare, a lavorare quella difficile creta che è la prosa. Ti mando tutto il mio affetto e il mio entusiasmo. Tuo Aff.mo Ugo Mulas“.
E’ l’atmosfera della ingenua cospirazione dei felici inganni e dell’entusiasmo per idee meravigliose, altro che storia dell’arte: poesia e niente altro, delirio tracotanza errore beatitudine. E quando le parole finirono Ugo Mulas cominciò a scattare foto.