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Ho conservato per molti anni questi frammenti. Mi proponevo ogni volta di esaminarli, poi c’era sempre altro da fare. Giovanna Bemporad se n’è andata il 6 gennaio. Ora studio questo piccolo tesoro di poesia e frugo nella memoria. Soppeso il tempo che si è fermato, calligrafia, parole: è il mio mestiere.
E’ una storia meravigliosa la vita di Giovanna Bemporad. Comincia coi primi soldi guadagnati con le traduzioni dall’Odissea, intorno al 1942, preferite a quelle di Salvatore Quasimodo che proprio allora pubblicava Ed è subito sera.
Così la fotografa Elio Pagliarani: “Mi declamava versi sulla spiaggia preferibilmente di notte, e a me tredicenne lei quindicenne pareva proprio una Pizia, un’autentica sacerdotessa di Apollo“.
E’ con quei soldi che in barba alla famiglia decide di abbandonare la scuola:
“Quel distacco fu una cosa naturale, in un certo senso scritta nel mio destino. Io con la scuola non legavo, così come non legavo con la famiglia, specialmente con mia madre. A dire proprio tutta la verità sono stata una contestatrice avanti lettera. Avevo scelto, per una forma di protesta esistenziale, di andare in giro senza scarpe, di non lavarmi, di non pettinarmi, di usare un linguaggio brutale. Non è vero però che portavo i pantaloni, come vuole una certa leggenda: indossavo una giacchettina nera e un gonnellino nero di quaranta anni prima, che avevo scovato in un ripostiglio. Per le strade, i ragazzi mi ridevano dietro, mi insultavano. Ma io nemmeno me ne accorgevo. Avevo un gran fuoco dentro, mi sentivo una vestale della poesia“.
La scuola era il Liceo Galvani a Bologna, dove aveva conosciuto Pier Paolo Pasolini. Erano molto amici e lo restarono per tutta la vita, loro poeti così diversi l’uno dall’altra, l’intellettuale comunista e la ragazza strana. Giovanna ricorda:
“Tra noi nacque un affetto profondo. Un giorno mi scrisse una lettera commovente, che purtroppo ho smarrito. Io lo gelai, dicendogli: «Sono lesbica». In realtà mi servivo di quella maschera come di una corazza contro gli uomini“.
Frequentando Pasolini aveva conosciuto anche il fratello e i partigiani suoi amici, e poi era impossibile non notarla per come si conciava, carica di spille e monili come una punk ante litteram, aggiungi a questo che era ebrea: fu catturata dai tedeschi.
“Io obbedivo ala poesia, e basta. Non potevo fare altrimenti. Finì che venni catturata dalle SS. Fui portata in campagna, messa contro un muro, le canne dei fucili puntate addosso. Era una fredda sera di novembre, il mese dei morti. Una furia selvaggia mi salì dalle viscere, mi misi a gridare in tedesco: «Perché mi volete uccidere? Non si uccide la poesia!». E continuai, sempre in tedesco, affidando la mia disperata voglia di vivere ai versi di Hoelderlin, uno dei poeti a me più cari dopo Leopardi. (…) Le SS rinunciarono alla fucilazione e mi rinchiusero nelle carceri di Rovigo. Qui per tre mesi mi tennero sotto il torchio dei loro terribili interrogatori. Ma non approdarono a nulla. Io non rispondevo alle domande. Mi comportavo come se la guerra non ci fosse, come se i partigiani fossero solo una favola. Parlavo di Nietzsche, del «Leviatano» di Hobbes, della grande filosofia di Hegel. A stancarsi furono loro, i miei aguzzini, e mi lasciarono andare“.
Quando la guerra finisce non è che la vita diventi meno dura:
“Dopo la guerra mi sono fermata a Venezia, vivendo allo sbaraglio. Non avevo un tetto sulla testa, dormivo sui marciapiedi, sugli scalini delle case, in una cantina dove gli scarafaggi mi camminavano addosso. Naturalmente facevo la fame più nera. Ma chi se ne preoccupava? Di giorno andavo in giro col mio bastoncino e inseguivo i cieli della poesia“.
Di quei giorni del dopoguerra ho due frammenti: un biglietto indirizzato all’amico Antonio Colognesi e una poesia dattiloscritta. Il biglietto è datato 30 ottobre 1946. Giovanna si preoccupa di far riavere un libro – un Plutarco – alla biblioteca civica di Rovigo: anche nelle ristrettezze libri e impegni vanno rispettati. La poesia sta dattiloscritta su un foglietto, la carta povera tipica del dopoguerra, e ci sono due minuscole correzioni a penna alla settima e alla quattordicesima riga. Probabilmente inedita, è intitolata «A un’etera», e se amare le donne fosse stato per lei solamente una corazza – come quando a Pasolini aveva detto di essere lesbica -, difficilmente avrebbe trovato accenti tanto languidi: non è interessante quali gusti ha una persona in fatto di sesso, ma qual è la sua capacità di tentarne e complicarne i limiti.
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Il 1948 è l’anno del suo primo libro: Esercizi pubblicato a Venezia con l’aiuto di alcuni amici studenti, una raccolta di poesie sue e di traduzioni. Non ne scriverà altri.
Ho davanti agli occhi una cartolina postale datata 3 marzo 1948. E’ indirizzata all’amico Antonio Colognesi e accenna all’assenza di dedica sulla copia del libro da lui ricevuta. L’editore aveva frettolosamente spedito la decina di copie a lei riservate. Ora io ricordavo di averne trovato e venduto un esemplare con una bellissima dedica. Nel database c’era la scheda e la dedica l’avevo trascritta:
“Poiché il tempo sempre più mi ruba alla mia immagine di ieri, e passerà via più leggermente che la spola del tessitore, o Antonio questo libro – che si ricorda qua e là del tuo paese – in luogo di me ti accompagni in tutte le realtà e le irrealtà della tua vita, e quando nelle sue stanze non potrai più entrare, questo libro ti concili anche con la morte, insegnandoti che morte e vita precipitano confluendo insieme in una unità senza nome“. Era proprio Antonio l’amico, e la data segnata era la stessa della cartolina, il 3 marzo del 1948.
Un’altra lettera ad Antonio e una serie di ritagli di giornale fissano quell’anno cruciale. Giovanna collaborava al quotidiano filocomunista Il Mattino del Popolo scrivendo brevi saggi e traduzioni di poesie per la rubrica «Breve storia della poesia moderna». La lettera non è datata ma segue alla sua partenza da Venezia e riflette uno stato d’animo come sempre inquieto:
“Tu dici di essere vissuto in saggezza; io vado sempre più disperandomi, anche se mantengo fede a una certezza irrefutabile, di me e dei miei simili; e soprattutto sospiro di essere a Venezia, dove le alberature e i battelli mi liberavano agli occhi uno spazio infinito, dove si liberavano come uccelli i miei versi“.
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Ma tornando al suo libro Esercizi. E’ vero che i poeti non possono scrivere che un unico libro. Quel libro era però stato per lei il segno di una profonda crisi, com’era ancora possibile fare poesia?:
“Da ragazza prodigio mi sono trasformata volontariamente in una poetessa «postuma» e mi sono camuffata sotto la corazza delle traduzioni dei classici“.
Era una crisi a cui aveva contribuito Pasolini con la forza dei suoi argomenti: basta col canto, ora la poesia doveva essere azione civile. Ma cosa c’entrava con le magnifiche sorti e progressive lei, la ragazza diversa e derisa, geniale e compatita? Mentre garrivano le belle bandiere decise di dedicarsi completamente alla traduzione integrale dell’Odissea, l’opera incompiuta che segna tutta la sua vita, perché non poteva esserci un riparo più sicuro per la sua poesia. E forse alla fine qualche ragione l’aveva:
“Pier Paolo Pasolini negli ultimi tempi della sua vita ha avuto anche lui la sua crisi poetica. Nell’Autobiografia in versi c’è questa confessione che mi ha sconvolta: «Avrò sempre il rimpianto di quella poesia che è azione essa stessa nel suo distacco dalle cose, nella sua musica, che non esprime nulla se non la propria avida e sublime passione per se stessa». Ebbene, è proprio quello che io ho cercato di fare, quello a cui mi sono mantenuta fedele: poesia come «forma», come musica che va al di là dei significati, perché cerca di dare una voce all’inesprimibile“.
E ora, su fragili fogli di velina forse degli anni Cinquanta, ho davanti a me il dattiloscritto completo della sua traduzione del libro XVII dell’Odissea, quello dove il cane Argo muore felice dopo aver riconosciuto il padrone e dove Ulisse travestito viene maltrattato da Antinoo: il libro in cui si prepara la vendetta. Si vede il lavoro di cesello attraverso le correzioni autografe e dattiloscritte, la lotta per una perfezione possibile solamente in sogno, una impresa che solo Ulisse avrebbe potuto capire, e solo lei Giovanna tentare di compiere, perché, dirà in un filmato di molti anni dopo, era la sua vita – come quella di tutti – l’Odissea.
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Il filmato che segue è stato realizzato da Giorgio Weiss per RAI 3 con il titolo Vita da poeta 7: Giovanna Bemporad, trasmesso il 17 dicembre 1987.
Tutte le citazioni di Giovanna Bemporad qui riferite, a parte quelle tratte dagli autografi, si trovano in «Trentasei notti in cantina con Enea», intervista di Giuseppe Grieco a Giovanna Bemporad, GENTE n. 41, 21 ottobre 1983.
25.01.2013
Ricevo questo testo da Rita Vitali Rosati.
Ogni inizio ed ogni fine si incontrano: è questo l’instancabile percorso che Giovanna Bemporad ci lascia a testimonianza dei suoi Esercizi, primo libro di poesie, edito nel 1948.
Ed è su questa traccia che si snoda la sua scrittura poetica, la sua poesia in ossequio ad un’altezza morale irreversibilmente intransigente della vita e del suo modularsi nel tempo.
Altre e più argomentative date della sua biografia si possono ritrovare su Internet: la sua nascita a Firenze nel 1928 e la sua morte in questi primissimi giorni del nuovo anno in una clinica romana. Le sue esequie nel cimitero di Fermo.
Questa perdita, questa assenza dissolvenza che si alza da un silenzio senza stagioni, accompagna in questi momenti, sovrapponendosi, un carosello di ricordi, immagini, situazioni, per recuperare, come un filo rosso mai interrotto, un racconto con cui rendere partecipi i lettori.
Ho conosciuto Giovanna Bemporad a Porto San Giorgio, un’estate degli anni ’70: probabilmente, insieme alla convivialità di un’occasione in una delle ville della riviera marchigiana, avevo incontrato l’espressione più viva, se pure appartata, della poesia italiana. Il tratto forte incorniciato da un caschetto di capelli rigorosamente sempre neri contrastava con l’esilità di una figura che, inchiodata negli abiti di fattura maschile ne pronunciavano la postura di volta in volta ieratica, astrale. Gli occhi neri, che custodivano, come in un paesaggio, passione e rigore, cercavano, con pudore e altri incanti, consensi e accensioni, assemblee, dove poter declamare versi con l’impeto di un amore forsennato, fino all’alba.
“Del resto scriveva e traduceva quasi solo di notte”, commenta Pier Luigi Panza, nel suo editoriale sulle pagine del Corriera della Sera, il 7 gennaio scorso. Sono, infatti, legate a queste sue incursioni in notturna, ( quasi dei blitz da cui a volte doversi difendere ), l’andirivieni di appuntamenti tra gli appartamenti dei diversi amici e parenti. Senza contare le visite ripetute nei bar più o meno chiassosi, chiamiamoli mondani, ritmate da una corte di presenze dalle età più eterogenee, con cui fare indistintamente le ore piccole.
Godendo delle brezze notturne estive.
Una fans fra le tante che si professavano affettuosamente tali era mia madre. Giovanna dimostrava di trovarsi a suo agio con lei, Palma, più anziana di Giovanna, ma poi non più di tanto; le lasciavo verso la mezzanotte e le ritrovavo a sfumacchiare imperterrite dopo le quattro del mattino, mentre quasi come in una gara si contendevano domande e risposte mescolando in nuvole di fumo accenti salottieri a più aspre , incalzanti diatribe lessicali sulla bontà di quella o quell’altra traduzione o interpretazione dei testi .Si trattava per l’appunto dell’Odissea , del quale conservo il menabò donatomi da Giovanna, con tanto di nastrino. Le sue telefonate si condensavano con una frequenza più assidua nei mesi estivi, come durante le feste natalizie, quando raggiungeva Porto S. Giorgio per un’occasione particolare. Puntuali dopo le otto di sera, dopo i suoi preparativi per un nuovo giorno che non coincidevano di certo con quelli di noi mortali. Questo non le precludeva di farsi accompagnare dalla camiciaia, la signora Ferracuti di Fermo, o di raggiungere qualsiasi altro appuntamento estorto eroicamente con il suo garbato puntiglio. “Ma Giovanna è Giovanna da subito”, scrive sapientemente Massimo Raffaeli sulle pagine del Manifesto, e così, mentre nuove vicende alimentavano la sedimentazione quasi leggendaria del suo percorso poetico, anche la sua vita intimamente più personale ha raccontato il destino dei suoi sogni, i suoi mali privati, per volere o per mancanza di un volere. Tutto questo nello scorrere cronico dei giorni.
Come gli anni della sua giovinezza trascorsa a Venezia nei sottoscala, nelle asprezze di un’Italia stretta tra le SS, ( lei di origine ebrea ), e i fascisti delle Brigate Nere; la sua singolare amicizia con Pasolini, prodigo interlocutore di Casarsa. Già da allora tutto della sua personalità vibrava di una rovente purezza, la stessa che la rendeva unica,( soprattutto a me che la sbirciavo attratta dalla sua stravaganza contagiosa, se pure misteriosa ). La stessa personalità che l’ha risparmiata dai rumori del mondo, adottando un magnifico filtro dell’inconsapevolezza che l’ha messa al riparo dalle gare di appalto, dalle rincorse ai media, dagli stucchevoli presenzialismi, dalle volgarità degli invadenti. La novità scandalosa della sua vita è stata quella di averne preso le distanze: tuttavia i suoi rimbrotti, le sue contrarietà verso gli obblighi matrimoniali, ( sposata al senatore Giulio Orlando ), le inutili se pure minime incombenze domestiche erano vissute da lei come una scacciata dal paradiso terrestre, una segregazione, una punizione, insomma, improcrastinabili e presenti. Ricordo gli spostamenti faraonici nelle stazioni di Civitanova o altre vicine, con valigione nere pesantissime, lei curva come in un film in b/n di De Sica o Rossellini per trasportare i suoi minestroni da consumare alle sei del mattino nei vari “quartierini” da raggiungere, disseminati tra il nord e il sud dell’Italia.
Di questa sua privilegiata caparbietà la …colpevolizzava bonariamente, un po’ divertita Joyce Lussu,antagonista, forse l’altra faccia della medaglia di una identica volontà. Joyce le rimproverava la sua totale assenza dal palcoscenico reale della vita, dalle lotte e dagli impegni in prima linea, sociali e politici. Giovanna teneva testa alle sue litanie. Entrambe, un giorno, in una villa nelle Marche, lessero le rispettive poesie a beneficio di un pubblico incredulo, incuriosito ed entusiasta. Giovanna, vibrante e duttile, non si è concessa mai ad alcuna improvvida sconfitta.
“ In silenzio diviniamo qualcosa”, scrive Pasolini. Ancorata all’endecasillabo come promessa per una poesia assoluta di suoni e per evocazioni ed accenti la Bemporad risponde guardando lontano: ”Ogni voce s’impigli nel silenzio”. In quest’aura di terrena santità termina il viaggio di Giovanna: “Mia compagna implacabile la morte persuade a lunghe veglie taciturne”. A Fermo, tra la fila dei cipressi, in un angolo oltre l’infinito e altre mille Amalasunte.
Come in una fotografia da incorniciare.
Rita Vitali Rosati
Fabriano, 13 gennaio 2013
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Bellissimo ricordo.
Il suo esemplare di “Esercizi” (1948) lo acquistai io, diversi anni fa.
Giovanna ci scrisse – a margine – una seconda dedica per me.
Andrea Iezzi
andrea.a.iezzi@gmail.com
Gentile Andrea,
mi fa molto piacere il suo messaggio: c’è un patrimonio che non può essere conservato nei musei e nelle biblioteche, piccole cose che non attraggono l’attenzione, che hanno bisogno di cura per non sparire. E’ il piacere di sapere che quelle cose non andranno perdute, che continueranno ad arricchire la nostra memoria con la loro presenza minima e però concreta. Grazie.
Non si uccide la poesia!
Non si uccide l’arte!
Non si uccide la cultura!
E, invece, al giorno d’oggi, sciami di presuntuosi, disonesti intellettualmente, si affollano. Ad uccidere poesia, arte, cultura, verità.
Non importa se non hanno talento alcuno. L’importante è arrivare. Al successo. Ad ogni costo.
Il lascito più indecoroso di anni di craxismo, prima, e di berlusconismo, poi. E tempi peggiori arriveranno.
Indicatemi il nome di un grande (e i grandi, quelli veri, son tutti modesti) che abbia meno di sessant’anni.
Giovanna Bemporad era una signora di rango, irrimediabilmente figlia di un’altra epoca…
che meraviglia essere custodi di questi raffinati ricordi in questo mondo dove nani ballerine e soldi la fanno da padroni!!!
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Che meraviglia ,grazie per questa pubblicazione