Non è un libro vero e proprio. Così ingombrante e sottile, ti veniva la tentazione di piegarlo ma non ci riuscivi se non rovinandolo: “E’ il ’77” sta scritto a caratteri cubitali in rosso su fondo nero, e tutti capivano immediatamente di cosa si trattasse. Quel 1977 di corse pistole e girotondi, di giornali cortei sampietrini, di donne libere, di droghe pesanti e leggere, di risate rosse di pianti, di baci e carezze senza distinzione di sessi, di terrore e poesia. Lo avevano capito tutti in quel momento che la storia aveva smarrito la diritta via. Le avvisaglie erano state le prime radio libere (Radio Alice inizia a trasmettere nel febbraio 1976) e la formazione dei primi centri sociali, l’assalto irridente alla Scala di Milano (dicembre 1976), l’autoriduzione nei cinema.
Stava prendendo corpo un movimento che non si misurava coi linguaggi della politica e i doveri della militanza, che non si orientava secondo la logica dei poteri, che non esitava a violare qualunque regola (per esempio il giornale VIOLA, come il fiore, ma anche come l’imperativo “vìola!”), e che stava imparando a usare l’arma più temuta dal potere, l’ironia.
Una moltitudine di corpi desideranti che andava a prendersi quel che non avrebbe mai potuto comprare, e rideva quando era anzi richiesta la massima serietà, sceeemo sceeemo, e ea-ea-ea / ea-ea/ ea-eh!
Dei miei amici di quel tempo, e di tanti altri che conoscevo, non so di nessuno che abbia fatto, come si dice, strada. Ci deve essere un motivo se alcuni sono spariti, se troppi sono morti di eroina, se i più si sono lasciati e come sciolti tra la folla, “come lacrime nella pioggia” o come portatori sani dello spirito che sempre nega.
Fu un momento d’ebbrezza, di libertà senza limiti, con tutti i rischi le paure la felicità e l’inevitabile sconfitta, nel giro di un anno mese più mese meno. Come la guerra dei contadini del 1525, la Comune di Parigi nel 1870/71, Fiume dannunziana nel 1919/20.
L’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, il 9 maggio del 1978, segnò la fine di ogni illusione, il ritorno all’ordine e alla logica stringente di quei “baroni, padroni, pompieri, aspiranti dirigenti…” ecc. elencati nell’incipit dell’unico testo che fa da introduzione:
Baroni, padroni,
pompieri, aspiranti dirigenti,
topi di sezione,
oscuri burocrati,
gente con la linea
in tasca,
forse tra qualche giorno ce ne andremo
e proverete a dimenticare
tornando con: bacheche, circolari,
processo democratico, giornali
delegati e mozioni
(ma non rompete i coglioni)
Direte: “era un fuoco di paglia,
un’oscura marmaglia
senza proposizioni”
(ma non rompete i coglioni)
Ma tutto questo non è stato invano,
Noi non dimentichiamo…
Per il vostro potere fondato sulla merda,
per il vostro squallore,
odioso, sporco e brutto…
Pagherete caro
pagherete tutto”.
E così questo libro, 40 grandi pagine di volti, gesti e voci, di corpi che si abbracciano, che scappano e s’incontrano, che giacciono immobili, che si rialzano, nella sua stessa scomoda forma vuole custodire e trasmettere la memoria e l’indicibile di quella esperienza.
Quelle foto che sembrano sempre sul punto di uscire fuori dal libro le ha scattate Tano D’Amico, la copertina e il design sono di Piergiorgio Maoloni che all’epoca era il grafico del Manifesto ed era venuto a prestare gratis la sua opera.
Tano racconta che il libro, pubblicato come edizione dei “Libri del No” per affettuosa concessione di Dario Paccino, fu in realtà pagato e realizzato con una gigantesca colletta fra i giovani del movimento.
Fu raccolto letteralmente “un sacco di soldi”, perché i responsabili della colletta si presentarono al tipografo con un sacco, appunto, dove stavano i soldi. Il tipografo, da poco fallito, chiamò a raccolta i suoi ex dipendenti per stamparlo in una notte.
Furono stampate migliaia di copie, molte delle quali su una carta un po’ sporca, che il tipografo avrebbe dovuto gettare via e che fu invece riciclata per questa edizione. Veniva venduto ovunque a Roma e fu quasi subito esaurito.
Al nord, a Milano, arrivarono poche copie. Molte furono acquistate da polizia e carabinieri, un po’ per ragioni di documentazione e un po’ perché in quelle foto c’erano anche loro, per quella umanità che diversa era anche in loro in quei giorni aspri e altrimenti inimmaginabili.
Giustamente oggi questo libro è cercato da tutti i collezionisti., ma questo non sarebbe accaduto se non se ne fosse accorto il famoso fotoreporter e collezionista britannico Martin Parr, che fra i libri fotografici semplicemente lo definì “uno dei più belli mai realizzati“.
E’ la sua incredibile collezione a fare da base alla storia del libro fotografico da lui redatta in collaborazione con Gerry Badger: The Photobook: A History. Il libro di Tano si trova nel terzo volume, l’ultimo pubblicato, nel 2014.
Martin Parr non aveva esitato diversi anni prima ad arricchire la sua collezione con un altro libro mitico, Il covo di via Paolo da Cannobio, nella prima edizione del 1939 rilegato con la corda al dorso e una custodia in canapa, l’esemplare donato a Luigi Freddi da Vittorio Mussolini. Erano le fotografie che Giuseppe Pagano Pogatschnig aveva scattato nel 1919 a Milano nel “covo” dove Benito Mussolini dirigeva Il Popolo d’Italia. Per la cronaca, Pagano fu deportato e rimase ucciso a Mauthausen nel 1945.
Cosa c’entra il libro di Pagano con il ’77? C’entra come tutte le cose che non si vogliono ricordare, l’ignoranza bigotta, o peggio ancora, la superficialità con cui lasciamo che il passato ci venga portato via, come Pierpaolo Pasolini profetava. C’entra con la dedica che Tano ha apposto alla copia che gli comprai: “A Paolo salvatore di tempi rimossi”.
Ecco, la disastrosa mutazione antropologica che annunciava Pasolini consiste proprio nella rimozione di tutto quello che non è conforme all’attualità. E sono felice di riconoscermi in un salvatore con la “s” minuscola, di aver rimesso in circolo saperi ed esperienze che andavano disperdendosi.
Occorre ricordare se vuoi essere capace ancora e nonostante tutto di bellezza e di felicità, che poi se ci pensi non è che il desiderio fatto poesia, l’atto stesso dell’immaginare, nati non fummo a viver come bruti.