“Siamo nella città inquieta e diversa…” dice D’Annunzio alla gente di Fiume nell’agosto 1920, dopo la lettura pubblica degli Statuti redatti con l’anarcosindacalista Alceste De Ambris.
Inquieta e diversa lo era stata la città di Fiume, fra il 12 settembre 1919 e il «Natale di sangue» del 1920. La governava un poeta, per la prima volta al mondo, e il suo esercito era costituito da insubordinati di ogni grado e arma dell’Esercito Italiano. La gente che ci abitava, per più di un anno visse di pochi viveri, di feste e di spettacoli, di parole bellissime declamate e stampate quasi ogni giorno da Gabriele D’Annunzio, per tutti più brevemente «il Comandante». Olocausta, Città di Vita, Porto dell’Amore.
Aveva una costituzione che sovvertiva il concetto di proprietà, un regolamento dell’esercito dove la cosa più importante era di superare in bellezza la Legione Tebana, era punto di confluenza di tutti gli indipendentisti e anticapitalisti del mondo, dall’Irlanda all’Egitto alla Russia bolscevica. Era un covo di pirati che per sopravvivere rubavano cavalli, dirottavano navi e compivano voli impossibili. Era un luogo di sperimentazione di forme alternative di vita: nudismo, naturismo, libero amore, uso di droghe. Se il futurismo fu principalmente Arte-Vita, vivere e creare qui ora subito per ricostruire l’universo, Fiume fu la città futurista per eccellenza, il luogo di tutte le possibilità, di tutte le provocazioni e di tutti i sogni.
Si è cercato con ogni mezzo di cancellare e di avvilire questa storia. Non doveva rimanerne memoria perché lì i senza potere avevano tenuto in scacco il mondo intero. Avevano riso delle minacce dei governi, si erano presi senza tante storie quello di cui avevano bisogno, avevano trasformato le rigide parate militari in cortei festosi di uomini e donne abbracciati, avevano dato spazio a tutti e a tutte le libertà.
Bisognava dimenticarla questa storia, e il linguaggio che aveva generato: un linguaggio da cui erano scomparsi i termini burocratici come i romantici. Era il linguaggio che una intera città aveva imparato dal Comandante, andando sotto il palazzo del governo beandosi della sua voce e di nient’altro. Un linguaggio che aveva a che fare con la musica, con l’amore e con la consapevolezza di non poter durare. Era poesia e basta, semplice, quotidiana, una confusione di felicità disobbedienza sacrificio solidarietà, fuori da ogni economia, e dalla storia.
Quelli che vissero in quell’atmosfera però non se ne dimenticarono. Rimasero i volantini, i libri, perfino una serie di francobolli, quelli con la testa di D’Annunzio che i legionari incollavano sulle giacche al posto delle mostrine dell’esercito, a disprezzo del regio governo dopo il Natale di sangue.
Chi mise insieme per la prima volta queste testimonianze guarda caso fu proprio una studiosa e collezionista di libri futuristi, Claudia Salaris (Alla festa della rivoluzione, Bologna, Il Mulino, 2002). Dopo sono venuti altri studi e riscoperte, e sembrò quasi che Fiume fosse una anticipazione degli anni Sessanta sesso droga e rock’n roll (il fascino che esercitano sempre i maledetti sui ben pensanti).
E invece quella storia fu qualcosa d’altro ancora, come la guerra dei contadini del 1525 in Germania, la Comune di Parigi, il Movimento 77, come tutte quelle volte in cui i senza potere seppero inventare nuovi modi di vivere e stare insieme, offrirono prospettive impensate, riuscirono a realizzare per un momento il mondo meraviglioso che possiamo costruire adesso senza bisogno di qualcuno che ce lo regali dall’alto o di sguincio.
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Per saperne di più e vedere altre immagini potete leggere il mio testo introduttivo al catalogo Gabriele D’Annunzio e l’impresa fiumana, Edizioni dell’Arengario, 2007.
L’impresa fiumana in un filmato degli anni Trenta dell’Istituto Luce:
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Davvero bello e chiarificatore… grazie mille