C’è una riflessione di Ugo La Pietra che mi ha colpito molto, quando diceva che lui non ha avuto un posto in cui riconoscersi e riconoscere il proprio passato: nato in un paesino del Sud aveva sempre vissuto in città, a Milano. Come se la città non permettesse l’affondare delle radici e forzasse ciascuno a cercare un punto fermo in superficie. Per me è questa la ragione dell’esistenza della gramigna. Ho sempre avuto rispetto e curiosità per quei fili d’erbaccia che si stringevano all’orlo dei marciapiedi, che spuntavano alla base dei muri lungo le strade asfaltate, così comuni nei quartieri alla periferia di una città industriale negli anni Settanta. Un paesaggio che mescolava asfalto e terra, sassi e lastricati, alberi e filo spinato, muretti, cani randagi, escrementi, cemento, pozzanghere. Quel paesaggio nessuno mai lo ha cantato, nessuno mai ci ha visto gran che di speciale. Eppure quel paesaggio era percorso da una umanità straordinariamente vitale, quelli che tornano quando li cacci e continuano a vivere nonostante tutto. Come la gramigna. C’erano i ragazzi coi pantaloni corti, la gioventù bruciata e drogata e il calcio giocato nei campetti ai bordi delle tangenziali. Molti operai, un po’ di impiegati, pochi professionisti, qualche padrone fra cui anche quelli che lavoravano insieme ai loro operai.
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C’erano catapecchie disabitate accanto a nuovi condomini, vecchie scuole, latterie, tabaccai che vendevano frutta e verdura, merciai che erano anche cartolai e librai. C’erano le cinquecento e le seicento poi 126, 127, 128 (sport). Lambrette, vespe. Tramonti rossi, cupi, azzurri, ragazze. La politica e il qualunquismo, bandiere e kung-fu fighting. Il bar dei fascisti, quello dei compagni, la casa del popolo dove vedevi sia compagni che fascisti perché il caffè e il vino lì costavano meno. Gente che suonava, gente che rapinava, studiava, invecchiava, gente che andava via per sempre. Alcuni in galera altri in America, in India, o a Milano, la metropoli. I bambini scendevano in strada, in strada giocavano e anche vivevano. Nessuno aveva il timore che succedesse loro qualcosa. Nel mio quartiere a nessuno è mai successo qualcosa che io ricordi. Se ci penso è vero che non ci sono radici in città, niente mi trattiene e nessuno mi cerca laggiù, c’è solo quello che mi sono tenuto stretto, quello a cui mi sono tenuto stretto con tutta la forza che potevo, un amore a cui non era necessario d’essere corrisposto. La bellezza è un prodotto molto sofisticato a cui sono ignoti i confini tra l’oggettività e la forma, tra schemi e invenzioni.
Così quando guardo una immagine creata da La Pietra mi viene in mente quel mondo e lo trovo e mi trovo bello. E mi sento molto vicino a lui che nemmeno conosco di persona. I suoi disegni dal tratto sottilissimo, le sue immagini che modificano la realtà si fanno strada nella mente con delicatezza, prefigurano luoghi da amare: “abitare è essere ovunque a casa propria“. Quelle sue operazioni strutturate con postulati e conseguenze – come nel Tractatus di Spinoza -, per tenere a freno l’impulso di scardinare il dato di fatto. Perché disequilibrare non è distruggere, è costruire in modo diverso e la diversità la fa ciascuno di noi, come la persona disabile può fare del suo handicap un atto di ricostruzione della vita.
Philippe Daverio Presenta così Ugo La Pietra:
Alcune riflessioni di Ugo La Pietra su design e artigianato (2009):