Mario Carli è l’emblema dell’arditismo diciannovismo fiumanesimo, quei fascisti che la polizia di Mussolini sorvegliava, gente poco raccomandabile e difficile da controllare, che era tornata dalla guerra più incazzata di prima e ora voleva fare la rivoluzione contro tutto il mondo, ispirandosi tanto alla Russia dei Soviet che agli indipendentisti di ogni risma, irlandesi, baschi, egiziani che fossero. Ma non solo. Carli è anche un raffinato intellettuale e latin lover, elegante, aristocratico e impermeabile a ogni snobismo radical chic. Fra atti di teppismo, attivismo politico e serate futuriste trova il tempo di comporre tavole parolibere e scrivere romanzi come questo Sii brutale amor mio!, edito nel dicembre 1919 a Roma da Ugoletti, quello che pubblicava il giornale Roma Futurista:
“Questo libro è stato cominciato un anno fra, fra i rombi della guerra, sotto il Grappa, mentre mi preparavo, con gli Arditi del diciottesimo reparto, agli assalti e contrassalti di giugno. Fu poi interrotto dalla mitragliatrice nemica che colpì la mia mano destra illudendomi per il momento di aver offerto alla Patria quanto di meglio possiede un poeta, dopo il suo cervello. Lo portai avanti nell’estate con la lenta paziente bambinesca scrittura della mano sinistra. Finalmente potei continuarlo con l’altra mano, semi guarita; ma esso ha dovuto crescere in mezzo al frastuono di una redazione tumultuosa come quella di Roma Futurista, tra le discussioni politiche, i canti degli Arditi, le partite di boxe, i motti e le risate degli amici (…): se in un ambiente così infernale e dinamico ha potuto uscire un romanzo chiaro, logico e geniale, bisogna proprio attribuirne il merito al mio temperamento di futurista autentico, che sa pensare in mezzo alla moltitudine e al moto più vertiginoso, senza lasciarsi deviare ma sfruttando l’ambiente come una fonte inaspettata di sensazioni. Per questo ho chiamato il libro “romanzo-battaglia” (…). Noi, scrittori moderni, abbiamo finalmente ottenuto questa vittoria sul passato: il vecchio tavolino contornato di scaffali è stato spazzato via, e scriviamo i nostri bei libri in treno, in auto, in dirigibile, nelle officine e nei campi di battaglia” (pp. 5-6).
24 maggio 1915, comincia la guerra: Nino Moressa “venticinque anni, una sola amante, ottantamila franchi di debiti e una grande stanchezza della vita“, è arrivato al punto di svolta.
Tutto ha origine da Ferrara, la città metafisica per eccellenza, anche perché proprio nell’ospedale militare di Ferrara si riuniscono De Chirico, Savinio e De Pisis. E all’origine c’è la dicotomia classica: la vergine e la cortigiana. Glorietta è la vergine diafana e adolescente che considera l’amplesso un atto di pura e semplice bestialità; Maura è la cortigiana, che sa come far girare la testa a un uomo. Ed è naturale che Nino affascinato da Glorietta non esiti un secondo a gettarsi ai piedi di Maura. Il loro primo incontro è anche insieme una rappresentazione teatrale orchestrata con sapiente fantasia: nello stesso giorno in cui gli dà appuntamento, Maura invita a casa sua con velate promesse cinque giovanotti amici di Nino che sbavano per lei. Risultato: i tipi arrivano solo perché venga spalancata davanti ai loro occhi la camera da letto dove Maura si offre senza veli a Nino, e lui neanche se ne accorge talmente è arrapato. Che troia, pensano ovviamente i cinque poveracci.
“Sii brutale amor mio!” è una frase di Maura, irretita dal furore passionale di Nino: la donna è affascinata e sempre lo sarà dal maschio che non ragiona più tanto è forte il desiderio di lei.
Però succede che chi mantiene Maura venga a sapere della tresca e per rimanere insieme i due amanti si trasferiscono a Roma. C’è poco da fare, la carne a poco a poco sfibra e stanca, Nino fa fatica a tenere il ritmo, si indebita e si annoia, vorrebbe scaricarla. Entra in scena Mario, impresario del cinema disposto a tutto per fare di Maura la sua amante. Nino corrisponde con Glorietta da cui si sente attratto sempre di più. E poi si arriva al punto di cui sopra: comincia la guerra. Nino decide di partire volontario e spera che Mario si decida a fare qualcosa per conquistare Maura di cui non vuol più nemmeno sentire parlare perché ormai è tutto preso dai sogni di gloria e sacrificio.
L’esperienza di guerra lo forma. Impara a convivere con gli altri e a condidere i sacrifici e le piccole gioie quotidiane, la povera felicità dei soldati che avevano lasciato casa, lavoro, mogli, figli, fidanzate, ed erano lì a regalare la propria vita confidando nella parola dei governanti e dei generali.
Mario Carli nel 1919 alla Grande Esposizione Futurista di Milano. Sullo sfondo una sua tavola parolibera: “Aplomb” |
“Per ciò che si ama, si può, si deve morire, a un momento dato. Chi non sa concepire questa verità elementare, non ha mai amato e non è degno di amare” (pag, 61). E’ proprio lo stesso concetto che si ritrova nei romanzi dell’amico Bruno Corra.
E intanto corrisponde con Glorietta. Difficile per lei, così lontana dalla vita come dal proprio corpo, capire lui che vive in trincea e che soprattutto del proprio corpo si deve preoccupare, a partire dai bisogni più elementari.
Poi accade che da Posillipo zia Noemi chiami Glorietta ad assistere lei anziana e prossima a morire. Mica neanche tanto però: donna di mondo introdotta in tutti gli ambienti chic fa partecipe Glorietta del bel mondo partenopeo e internazionale che lì conviene. Così sotto il sole napoletano e attraverso la dolce vita di cui zia Noemi è espertissima, Glorietta adesso gioca a tennis, va a ballare, scopre il piacere di stare all’aria aperta, di andare in giro con pochi vestiti, di ridere e scherzare. Ed è forse per questo che quando Nino viene ferito lei invece che scrivere vuole vederlo senza tante storie e detto fatto raggiunge la linea del fronte.
Finalmente un gesto di vero amore: e sarà l’inizio della loro storia.
“C’è in noi una ricchezza di sensibilità e di sentimento che, o presto o tardi, o bene o male, bisogna spendere. C’è chi la spende a piccole razioni, giorno per giorno: e resta povero tutta la vita. C’è chi la spende in una stagione, tutta in un getto: e costui, se anche resterà povero, ha almeno vissuto per un giorno da milionario, e non può pentirsi. C’è chi per anni e anni non la spende affatto, e allora l’interesse capitalizzato gli moltiplica talmente il patrimonio, che con esso potrà vivere da gran signore per tutto il resto della vita” (pp. 55-56).