1.
Guerra sola igiene del mondo
Quando il Manifesto del Futurismo esce il 20 febbraio 1909 sul Figaro di Parigi sotto il titolo di «Le Futurisme», gli intellettuali italiani ed europei erano già informati: Marinetti lo aveva inviato per posta a mezzo mondo nella primissima versione, quella stampata in bleu con il logo della rivista Poesia, oltre a pubblicarlo in anteprima sulla Gazzetta dell’Emilia e altri giornali italiani.
Era il primo manifesto e il primo concetto dell’avanguardia, non c’era mai stata prima una cosa così, nemmeno il manifesto dei simbolisti di Jean Moréas del 1886, o la conferenza El Futurisme di Gabriel Alomar pubblicata a Barcellona nel 1904.
Il futurismo affascinò i giovani di ogni paese e di ogni classe sociale perché metteva in gioco la loro lingua e le loro pulsioni: il futurismo nasce adolescente, o bello ventiduenne per dirla con Majakovskij, ma da un Marinetti più che trentenne.
Certe idee, quelle che mettono radici e danno vita ai movimenti, non vengono dal niente. Da dove viene l’idea del Futurismo? Forse da una brutta domenica del 1898 a Milano, l’otto di maggio, quando il generale Bava Beccaris prende a cannonate la gente in rivolta. Una strage che rimarrà nella memoria anche per la disperata resistenza che si protrasse fino al giorno successivo. I moti erano cominciati il 6 maggio con il sequestro di volantini di protesta e l’arresto di varie persone da parte di agenti di polizia infiltrati fra gli operai della Pirelli. E tanto è rimasta nella memoria questa storia che dieci anni dopo nel 1908 uscì un numero unico sottoscritto da vari intellettuali, 1898, con una mano insanguinata in prima pagina. Fra gli altri ci sono Leonida Bissolati, Guglielmo Ferrero, Gian Pietro Lucini, Saverio Merlino e guarda caso Filippo Tommaso Marinetti, con il futuro suocero Innocenzo Cappa. Il contributo di Marinetti è una poesia che ricordava un’altra domenica, la “domenica di sangue” del 9 gennaio 1905 a Pietroburgo, ed era dedicata ai “rivoluzionari russi”, un “elogio della dinamite” che sarebbe esplosa come una stella a distruggere il mondo dorato dei dominatori.
Se il Futurismo inizia con un manifesto il Movimento ’77 inizia con un occultamento, una omissione. Una immagine che non sarà veduta se non venti anni dopo. Il fotografo Tano D’Amico non l’aveva stampata, consapevole che la sua pubblicazione avrebbe distrutto sul nascere quel movimento e quella storia, motivo per il quale molti suoi colleghi giornalisti che non gli arrivano al tacco giudicarono col saper del di poi “omertoso” il suo comportamento. L’immagine è composta da due fotografie scattate il 2 febbraio 1977, una delle quali – la seconda -, fu pubblicata nel 1997 in uno dei quattro opuscoli editi dal giornale Il Manifesto (AA.VV., Settantasette. Fotografie di Tano D’Amico, Roma, Il Manifesto, 1997; vol. II pag. 17).
Ci sono due ragazzi, Daddo e Paolo, poco dopo la sparatoria che aveva sconvolto la zona di Piazza Indipendenza a Roma. Nella prima foto Paolo è accasciato al suolo ferito mentre Daddo sta correndo via con la pistola in mano. Nella seconda si vede Daddo che raccoglie l’amico e cerca di trascinarlo via. In mano ha due pistole. Televisioni e giornali riporteranno i fatti e resterà il dubbio sulle cause della sparatoria, fra cui l’intervento di agenti provocatori, o di terroristi di professione, e chi aveva cominciato e chi finito.
Ma cosa c’entra il Futurismo, cosa l’arte la poesia con questa storia di sangue e di strani studenti? C’entra eccome. C’entra il conflitto. C’entra che il conflitto è al centro, come il nucleo di un atomo. Stiamo parlando della vita e della morte: e di cos’altro dovrebbero occuparsi l’arte la poesia? Ma questa cosa della guerra scandalizza. Perfino Carmelo Bene declamando il manifesto del Futurismo ometteva i punti riguardanti la guerra “sola igiene del mondo” come anche il “disprezzo della donna”. Non che non ne capisse perfettamente il senso ma come spiegarlo a un pubblico colto, impegnato, progressista e di sinistra fin che si vuole ma che ci vedeva tutto il fascismo possibile?
2.
Assalto al cielo (finalmente il cielo è caduto sulla terra)
Il primo libro di Marinetti, che precede di qualche anno il manifesto del Futurismo, si intitola La conquista delle stelle ed esce in lingua francese a Parigi nel 1902. La metafora del cielo preso d’assalto, delle stelle che cadono e dell’uccisione dei chiari di luna, questa sproporzione fra individuo e cosmo non basta certo la scrittura a compensarla. Ma la sua impotanza è tale che uno dei manifesti futuristi fondamentali è Ricostruzione futurista dell’universo che Balla e Depero pubblicano nel 1915. Come mai tanta insistenza su questo paradosso? Cosa c’è di essenziale in questa sbruffonata?
C’è una fotografia che illustra molto bene cosa si intende per assalto al cielo nel 1977. E’ una foto che ritrae dei giovani mentre stanno scalando il palazzo del Comune di Bologna. Una cosa faticosissima e di nessuna necessità essendoci già entrati altri loro compagni che coi volti sorridenti si sporgono dal balcone per accoglierli. Un esercizio spirituale come le scritte che campeggiano sui muri a quell’epoca: “Diamo l’assalto al cielo” o “Presto occuperemo il Paradiso”. Proprio come Balla e Depero vorrebbero ridisegnare l’universo rallegrandolo, triste com’è, cercando di materializzare l’invisibile, l’impalpabile, l’imponderabile, l’impercettibile: “L’inferno è rosso, il paradiso lo sarà” (volantino distribuito a Roma nel maggio 1977).
Cosa vuol dire assaltare il cielo? Vuol dire mettere in gioco il proprio tempo di vita per realizzare qualcosa di impossibile, di inimmaginabile. Vuol dire volere tutto, come lo slogan degli operai della Fiat che dà il titolo al romanzo di Nanni Balestrini del 1971. Vuol dire non volere niente di quello che ordinariamente si vorrebbe. Agognare il nuovo l’inedito l’inconcepibile: è l’atmosfera dell’avanguardia – per usare l’espressione di Marinetti -, proprio nel senso che solo così l’avanguardia può respirare, senza questo paradosso l’avanguardia morirebbe soffocata. E così, accusati dall’allora primo ministro Francesco Cossiga di attentare all’ordine dello Stato riuniti in non meglio identificati covi, i ragazzi del Movimento ’77 rispondevano che stavano tutti a covare e che cospirare significa respirare insieme.
Il cielo è la sede del Padre, è l’eterno che incombe con la sua saggezza, l’imperscutabile che domina come destino: il Potere, padre padrone padreterno (Joyce Lussu). Forse il primo vero assalto al cielo avviene nel 1912 con il Manifesto della donna futurista di Valentine de Saint-Pont: si poteva accettare il voto anche per le donne, perfino che il lavoro femminile fosse pagato quanto quello maschile, ma che la pari dignità si fondasse sul sesso questo no assolutamente. Che l’emancipazione debba partire dal corpo e dai bisogni le donne italiane lo proclameranno molti anni dopo, un giorno d’autunno del 1976 a Rimini, quando con i loro interventi inconcepibili per un militante disintegreranno Lotta Continua.
LC scomparirà come partito ma resterà come giornale, l’unico giornale della sinistra aperto a tutte le esperienze del Movimento: la violenza creatrice è donna.
Per esempio, il primo resoconto di cosa sia un aborto sta in un libro del 1919, Un ventre di donna di Enif Robert (vedi anche http://www.arengario.it/?p=169). Lì c’è tutto il dolore e il desiderio di riscatto, e si capisce come la donna debba essere tenuta lontana dal cielo col suo corpo che testimonia la radicalità del sesso e la vanità dell’anima. Oppure Amelia della Pergola prima moglie di Massimo Bontempelli, in arte Diotima, che nel suo A coppie e soli (1934) metteva a nudo impietosamente la realtà: divenendo buona moglie e madre perfetta lei rimane sola e annichilita perché tutti i sogni e la bellezza li ha soffocati in un vivere che non era il suo, in un destino da cui era estromessa fin dall’inizio (vedi anche http://www.arengario.it/?p=146). O l’adorabile Trillirì inventata da Mario Carli nel 1922, a ricordare l’esperienza di Fiume: il maschio eroe rientra nei ranghi del vivere civile e benpensante, mentre lei non vuole fare un solo passo indietro, lei quell’atmosfera di libertà e di rivolta l’ha assorbita con tutto il corpo e non ci rinuncia, dunque semplicemente svanisce, si situa altrove. Grida piano che i vicini ti sentono si intitola un libro edito nel 1977 dalle edizioni Limenetimena, le streghe siamo noi.
Quando le donne si ribellano anche gli uomini cominciano a farsi delle domande: per esempio Fillia che nel suo L’ultimo sentimentale (1927) si accorge di non essere all’altezza, che nella donna c’è una bellezza nuova e incomprensibile. Nel 1977 la coscienza di questo disagio la ritroviamo per esempio in un libro scritto a quattro mani, L’ultimo uomo, pubblicato nella collana “Il Pane e le Rose” di Savelli: è una confessione che sta fra la sincerità e il perbenismo, un po’ ruffiana e un po’ disperata, vorrebbe dire tutto ma qualcosa lo nasconde e forse proprio in questa mescolanza sta la sua autenticità.
Assalto al cielo è anche il Manifesto del Partito Politico Futurista del 1918 in cui veniva proposta innanzitutto una assemblea di 20 saggi a verificare che il Parlamento funzionasse bene, e per proporre idee nuove. La differenza rispetto alla miserevole attualità sta nel fatto che quei saggi dovevano avere tutti meno di trent’anni ed essere eletti a suffragio universale. Poi una serie di provvedimenti indispensabili:
“… abolizione dell’autorizzazione maritale e divorzio facile, … svalutazione graduale del matrimonio per l’avvento graduale del libero amore e del figlio di Stato, … partecipazione eguale di tutti i cittadini italiani al Governo, … libertà di sciopero, di riunione, di organizzazione, di stampa. Trasformazione ed epurazione della polizia… Abolizione dell’intervento dell’esercito per ristabilire l’ordine. Giustizia gratuita e giudice elettivo. I minimi salari elevati in rapporto alle necessità della esistenza. Massimo legale di 8 ore di lavoro. Parificazione ed eguale lavoro delle mercedi femminili con le mercedi maschili… Riforma radicale della Burocrazia…“.
Il manifesto politico del Movimento ’77 è invece, forse, uno dei primi volantini di Radio Alice, distribuito nel 1976, un volantino in cui non ci sono proposte di nessun genere, perché quei giovani solo questo allora potevano dire, quel che “non” erano quel che “non” volevano:
ABBASSO LA VOSTRA ARTE
ABBASSO LA VOSTRA POLITICA
ABBASSO LA VOSTRA RELIGIONE
ABBASSO LA VOSTRA MORALE
I futuristi volevano chiudere le scuole (Papini, Chiudiamo le scuole, 1919), mettere in discussione il moralismo sessuofobo (Italo Tavolato, «Contro la morale sessuale», 1913; vedi anche http://www.arengario.it/?p=180), vendere le opere d’arte dello stato per risolvere la crisi (Marinetti, L’unica soluzione del problema finanziario, 1915), affermare il diritto all’ineguaglianza, in perfetta sintonia col manifesto del partito comunista di Marx e Engels: “ad ogni uomo ogni giorno un mestiere diverso” (Marinetti, L’inegualismo, 1923), e superare tutti e tutto andando addirittura Al di là del Comunismo (Marinetti, Edizioni della Testa di Ferro, 1920), proponendo ai socialisti di allora un’alleanza su tre semplici obiettivi: 1. liberare l’Italia dal Papato 2. vendere le opere d’arte per favorire le classi povere e finanziare i giovani artisti 3. abolire tribunali, polizie, questure e carceri.
I giovani del ’77 invece senza proposte e senza neanche troppi sogni portarono l’assalto al cielo tirandolo giù: alla fine del 1976 ci fu l’ondata delle autoriduzioni nei cinema da parte dei neonati circoli giovanili, partendo da Milano per arrivare fino a Roma: jacquerie. Prendersi quel che piace senza pagare, poesia cultura caviale champagne, non per l’accumulo ma per il soddisfacimento immediato di un bisogno o di un desiderio. Finalmente il cielo è caduto sulla terra è uno dei tanti fogli del Movimento, uscito in soli quattro numeri fra marzo e aprile del 1977: la rivolta non passava più per i canali rassicuranti delle organizzazioni parlamentari ed extraparlamentari, ma nei quartieri, nei circoli giovanili, nelle prime radio libere, era un nuovo modo di sentire e di vivere. Ogni numero è scandito da una frase che annuncia lo svolgersi della rivoluzione (e infatti in alcune bibliografie questa testata ha per titolo La Rivoluzione»: nel primo numero il «12 marzo è un bel giorno per cominciare», nel secondo «la rivoluzione è giusta necessaria possibile», nel terzo è già a metà e infine nel quarto agli occhi del Potere si transustanzia in complotto. A settembre uscirà, fuori serie, il numero unico «La rivoluzione è finita, abbiamo vinto».
Eppure il cielo era già caduto sulla terra molti anni prima, nel 1919 a Fiume, dove tutte le potenze e le ragioni politiche del mondo non riuscirono a impedire che la poesia prendesse per mano il potere. Come la Comune di Parigi nel 1871 o la rivolta contadina in Germania nel 1525. A Fiume confluirono tutti i dannati della terra. Anarchici fascisti comunisti socialisti futurdadaisti. E’ Claudia Salaris che per prima ricostruisce questa storia bollata come fascista e dimenticata, nel suo Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume (Bologna, Il Mulino, 2002).
“Siamo nella città inquieta e diversa” aveva detto Gabriele D’Annunzio iniziando la lettura pubblica degli Statuti, la nuova costituzione che aveva scritto insieme all’anarcosindacalista Alceste De Ambris. Per la prima volta al mondo un poeta era a capo di uno stato e quando D’Annunzio entra in città acclamato dalla folla il 12 settembre 1919 i primi ad annunciarlo e a complimentarsi con lui sono i dadaisti che da Berlino mandano un telegramma (poi pubblicato sul Dada Almanach nel 1920). Fiume inquieta e diversa lo era come nessun’altra città al mondo. Era difesa da un esercito di insubordinati che rischiavano la fucilazione, la gente che ci abitava visse per più di un anno di pochi viveri, di feste e di spettacoli, di parole bellissime declamate e stampate quasi ogni giorno da Gabriele D’Annunzio, per tutti più brevemente «il Comandante». Olocausta, Città di Vita, Porto dell’Amore. Aveva una costituzione che sovvertiva il concetto di proprietà, un regolamento dell’esercito dove la cosa più importante era di superare in bellezza la Legione Tebana, era punto di confluenza di tutti gli indipendentisti e anticapitalisti del mondo, dall’Irlanda all’Egitto alla Russia bolscevica. Era un covo di pirati che per sopravvivere rubavano cavalli, dirottavano navi e compivano voli impossibili. Era un luogo di sperimentazione di forme alternative di vita: nudismo, naturismo, omosessualità, libero amore, uso di droghe. Se il futurismo fu principalmente Arte-Vita, vivere e creare qui ora subito per ricostruire l’universo, Fiume fu la città futurista per eccellenza, il luogo di tutte le possibilità, di tutte le provocazioni e di tutti i sogni.
E a Roma nel maggio del 1977 si occupò uno stabile in via dell’Orso al numero 88: l’Orsottantotto, la Casa del Desiderio. L’orsetto che la rappresenta lo disegnò Pablo Echaurren, uno fra i primi indiani metropolitani, che proprio in quel periodo cominciava a collezionare libri futuristi, ma di nascosto per non incorrere in anatemi. Anche lì si voleva più di tutto sperimentare la vita e nuovi modi di stare insieme. Non è rimasto niente se non un libro di Pablo del 2005 e un pacchettino di carte che per fortuna una università americana conserverà con cura. Sono volantini fatti a mano, bigliettini d’odio e d’amore che si scrivevano quelli che vi transitavano, disegni, cose strappate dai muri, o tolte dalle porte con i segni delle puntine usate per appenderle. Frammenti come frammentaria e moltiplicata era la vita lì. C’erano mille contraddizioni e mille contrasti. La felicità passa attraverso la pulizia della casa, le antipatie personali, la convivenza di persone diversissime. I desideri che si incontrano ma anche si scontrano, la gente che va e viene prende e regala. Quel che rimane sono profumi, suoni, visioni, sguardi. Quel che rimane non appartiene a nessun posto, è l’altrove.
3.
Una nuova lingua
Nel 1912 Marinetti pubblica il manifesto teorico: L’immaginazione senza fili e le parole in libertà, è l’inizio di una sperimentazione poetica e tipografica che prenderà forma nel primo libro d’artista mai realizzato: Zang Tumb Tuuum (1914) e a quello seguiranno altri libri suoi e dei suoi amici.
Depero intorno al 1915 inventa l’onomalingua, di cui faranno pratica qualche anno dopo i dadaisti del Cabaret Voltaire, l’irruzione del non senso che era soprattutto liberazione dal senso. Una rivoluzione che interessava contemporaneamente il linguaggio della pittura: Carrà disegna nel 1914 il manifesto Sintesi della guerra con il cuneo degli alleati che penetra nella mollezza austriaca e lo replicherà a colori nel 1918 sulla rivista «Il Montello»: è impressionante la somiglianza con «Colpisci i bianchi col cuneo rosso» di Lissitzki, l’immagine icona del costruttivismo che però fa la sua apparizione solo successivamente, nel 1919.
Segni e parole in libertà li ritroviamo in tutti i fogli del ’77 fra cui è speciale «A/traverso», il primo ad adottare sistematicamente stilemi della rivoluzione tipografica futurista, come nel foglio/manifesto stampato in rosso carminio che in una pioggia di lettere sullo sfondo di Bologna celebra Radio Alice, la prima radio libera. Così come Oask, Wam, Wow, L’in/dice dell’umidità e tanti altri fogli dell’epoca.
Dentro questa sperimentazione c’era e c’è un discorso sul linguaggio. Quando le cose cambiano il linguaggio cambia, ma è anche possibile l’inverso, che il mio linguaggio attraversi, corrompa, evolva, inganni o demistifichi la realtà. E la prima cosa da fare per cambiare il linguaggio è liberarlo dall’obbligo di significare qualcosa, restituirgli il gioco, l’essere per nulla al mondo. La prima cosa da fare è abbandonare la volontà di dire qualcosa: parole in libertà.
4.
«Sceeemo» o Dell’ironia
L’arma dell’ironia. Tutta l’ironia del Movimento 77 si può sintetizzare più che nel verso indiano (ea ea ea, ea ea, ea eh – spesso condito da uno «ué» finale) nello slogan – ma che slogan, era un urlo che veniva dal cuore, una nenia sacra che illuminava lo spirito – “Sceeemo Sceeemo”. Il bersaglio era di volta in volta il sindacalista, il leader sessantottino, o più semplicemente il tipo noioso che parlava sempre in assemblea. “Sceeemo” era l’arma letale diretta contro chiunque credesse di avere la verità in tasca, la linea eccetera. Su un numero di Lotta Continua del 1977 compare una vignetta disegnata da Pablo Echaurren. Lo “scemo scemo” che Pablo fa gridare all’indirizzo di Woodstock seduto sul pianofortino dice tutto: l’icona linusiana, la cultura moderata e brillante très chic e salottiera è bersaglio più difficile da centrare che non i beceri reazionari. Le note musicali addolciscono il grido ma ne aumentano la potenza destrutturante: era proprio così, si cantilenava «sceeemo» serenamente in armonia con l’universo. E Aldo Palazzeschi è altrettanto maligno quando dedica affettuosamente al pubblico il suo Codice di Perelà (1911), quello il cui primo capitolo si intitola «L’utero nero», promettendo deliziose opere d’arte in cambio dei fischi – o anche nel suo manifesto del Controdolore, in cui propone una totale comicizzazione della vita e la desacralizzazione della morte.
Anche D’Annunzio sapeva essere futuristicamente ironico. E’ lui che in terza persona scrive un manifestino in cui alcuni giovani della Disperata vanno a pizzicare un generale che si era permesso di bollarlo come furfante.
Il fatto è che quelli della Disperata non erano soldati normali che dovevano fargli da guardie del corpo ma degli innamorati che si contendevano a coltellate l’onore di stargli vicino. Del resto D’Annunzio li aveva tolti dalla strada seguendo il consiglio di Guido Keller: erano senz’altro dei teppisti ma belli e coraggiosi, non poteva esserci una protezione più degna per la sua persona, altro che l’accozzaglia di pallosi graduati di cui era circondato suo malgrado. Quei ragazzi vanno dunque a pizzicare quel tal Generale Nigra, che ovviamente a quel punto manifesta tutta la sua ammirazione per il Comandante, i legionari e la bella città di Fiume, ed è onorato di poter far mostra sulla giacca del nastrino fiumano rosso giallo e bleu. Sceeemo.
Rispetto al Movimento ’77 c’era meno politica nell’ironia futurista ma il succo era quello, la follia, lo spiazzamento, l’uso del linguaggio al fine di scardinare il senso comune: il casco d’acciaio che incorona Farfa vincitore del primo circuito di poesia (1933), il punto escamativo che è l’autoritratto di Bot (1929), le risate esplosive di Fernando Cervelli che incorniciano il futurmanifesto contro le barbe visibili e invisibili (1933), le macchine inutili di Munari (1942) – la pazzzzia con quattro zeta che campeggia sulla copertina del libro di Franco Casavola: Avviamento alla pazzzzia (1924), ecc.
Ma se c’è qualcosa che connota il Movimento ’77 e lo spinge al di là del futurismo è l’ironia connessa all’uso e allo sfruttamento del falso. Il primo e clamoroso è «Lettere agli eretici» di Enrico Berlinguer, scritte in realtà dal situazionista Pierfranco Ghisleni, una operazione esemplare: veste grafica uguale a quella della collana einaudiana del Nuovo Politecnico, un giorno di febbraio quel libro comparve in bella esposizione nelle più frequentate librerie italiane e dopo qualche giorno l’Espresso lo denunciava. Era una presa in giro di tutta la sinistra italiana nella sua veste militonta e modaiola. Poi via di seguito col Movimento Fantomatico Assente, e la famosa conferenza stampa in cui Gandalf il Viola (Olivier Turquet) dichiarava che il PCI era la cosa più dadaista mai esistita e si complimentava con i suoi dirigenti, che con il loro comportamento schizoide stavano facendo impazzire il potere. In quell’occasione l’indimenticabile ultras della Roma Cavallo Pazzo si era scagliato contro Gandalf per difendere Massimo D’Alema, allora segretario della federazione giovanile del PCI – va bene l’ironia ma non contro i compagni del partito. Qui di seguito l’unico documento video rimasto:
Si capisce come potessero nascere ad ogni angolo riviste e rivistine: la Sensazione del Soffice Blu e il miliardario Bifo arrestato in prima pagina sull’Unità divenuta per l’occasione l’Unanimità, Strippo Teorico, Enig/mistica, Désir, Dalle Cantine Frocie, Zizzania, Zut. Indiani e autonomi venivano bollati come fascisti e avventuristi, e quelli rispondevano “Gui e Tanassi sono innocenti / siamo noi i veri delinquenti“.
5.
Essere altrove (ove altro è)
E poi una mattina è tutto finito e la storia continua. La storia che poi è quanto raccontano i vincitori, ha scritto il mio amico Tano, il fotografo di cui ho già detto. I futuristi non hanno vinto e infatti la storia del futurismo non l’hanno raccontata loro. Neanche quelli del ’77 hanno vinto e quindi la storia di quel movimento sta in mille pubblicazioni fra cui poche hanno l’odore e il sapore della verità.
Quando muore Umberto Boccioni L’Italia Futurista del 26 agosto 1916 mette in prima pagina la famosa immagine del suo pugno disegnato da Giacomo Balla e delle parole in libertà di Marinetti: il più moderno dei pittori se n’era andato in guerra, in pochi anni aveva sconvolto la pittura di secoli e adesso una cosa assurda se lo portava via, era giovane e bello come tutti gli eroi, come lo era Antonio Sant’Elia, quello che aveva inventato funzionalismo razionalismo e architettura radicale, che se ne andrà anche lui due mesi dopo.
Alla morte non pensiamo mai, eppure non c’è niente che ci riguardi di più. C’è una vignetta che Pablo Echaurren pubblica su Lotta Continua nell’estate del 1977. E’ una immagine che ricorda il 12 marzo a Bologna. In quei giorni fu ucciso un ragazzo, Francesco Lorusso, e la città fu teatro di scontri violentissimi. Furono svuotate armerie, asssaltati negozi e ristoranti. C’erano barricate ovunque, pallottole, sassi, bottiglie incendiarie. E su una barricata un ragazzo suonava il pianoforte. Suonava Chopin mentre il casino immenso montava. E lui con la sua persona era l’immagine di quel nuovo movimento che voleva cambiare la vita prima che il mondo. Si era messo là a dire come erano belli quelli che si ribellavano, che le cose così come stavano si potevano cambiare.
Poi quel ragazzo che si chiamava Antonio Mariano e aveva 23 anni, morì alla fine dell’estate per un incidente d’auto. Il disegno Pablo lo esegue poco dopo fissando nello spazio bianco il linguaggio nuovo e incomprensibile, e il suono gelato.
E poi quel 12 maggio 1977 in cui a Roma fu uccisa Giorgiana Masi. Uccisa per sbaglio, anche il nome sbagliarono, Giorgina, credendo di correggere.
“Se la rivoluzione d’ottobre / fosse stata di maggio, / se tu vivessi ancora…” è l’incipit della poesia che la commemora, scritta dalle donne, e si può leggere ancora sulla lapide che si trova a Ponte Garibaldi. La morte ci mette davanti agli occhi la possibilità dell’altrove. Il Settantasette già a maggio proclamava “ma sì, restiamo poesia, pura immaterialità…” (dalla rivista Altrove/Materiali, n. 2, 1977). La rivoluzione è finita, abbiamo vinto, “non” prendere il potere, zombie di tutto il mondo unitevi a Nervi: mettiamo insieme titoli e slogan e sarà la storia più vera di questo movimento che già allora stava ove altro era.
Ma dicevo della morte, che è anche una metafora della fine e/o viceversa. L’ultimo volume pubblicato dalle Edizioni Futuriste di Poesia è Bombardata Napoli canta di Piero Bellanova, del 1943. La copertina è di Enrico Prampolini. Le note salgono rosse, linguaggio incomprensibile sullo sfondo del Vesuvio e delle esplosioni, cosa rimane ai perdenti se non un po’ di voce e il linguaggio. Marinetti muore per l’ennesimo attacco di cuore mentre sta scrivendo l’Ode alla Decima Mas, una delle squadre antipartigiane più feroci. Ma non c’è niente di esaltante, c’è tutto il mondo che cade: “Io non ho nulla da insegnarvi mondo come sono / di ogni quotidianismo e faro di una aeropoesia / fuori tempo spazio” sono gli ultimi versi.
E poi quel 16 marzo 1978 fu rapito Aldo Moro. Quelli della scorta morirono tutti. Anche Moro fu ucciso due mesi dopo. C’è sempre una buona ragione per togliere qualcuno dalla vita, la ragione di stato, la ragione della giustizia, la ragione della rivoluzione, un sacco di ragioni tutte incredibilmente plausibili e con queste si scrive, si racconta la storia. Che è andata così e così per questo e quest’altro motivo.
E invece il libro più importante sul ’77, quello che conserva tutto quello che si sarebbe potuto dimenticare, è un libro fatto di sole immagini e un testo iniziale, una scritta comparsa allora sui muri dell’università, quella famosa che comincia con «Baroni, padroni, pompieri, / aspiranti dirigenti…». E’ il libro di Tano D’Amico «E’ il ’77». Quel libro fu pagato e realizzato con una gigantesca colletta fra i giovani del movimento. Fu raccolto letteralmente “un sacco di soldi”, perché i responsabili della colletta si presentarono al tipografo con un sacco, appunto, dove stavano i soldi. Il tipografo, da poco fallito, chiamò a raccolta i suoi ex dipendenti per stamparlo e la grafica fu curata gratis da Piergiorgio Maoloni. Furono stampate migliaia di copie, molte delle quali su una carta un po’ sporca, che il tipografo avrebbe dovuto gettare via e che fu invece riciclata per questa edizione. Veniva venduto ovunque a Roma e fu quasi subito esaurito. Al nord, a Milano, arrivarono poche copie. Molte furono acquistate da polizia e carabinieri, un po’ per ragioni di documentazione e un po’ perché in quelle foto c’erano anche loro, per quella umanità che diversa era anche in loro in quei giorni aspri e altrimenti inimmaginabili. E tra tutte le foto di ragazzi e poliziotti, botti, fumogeni, baci, lacrime, sorrisi e camionette, almeno una sarà ricordata per sempre, quella della ragazza di cui si vedono solo gli occhi, uno sguardo che racconta tutto, ma proprio tutto, e non lo troverai nei libri di quelli che ti spiegano la storia.
Questo testo è la sintesi del mio intervento al convegno internazionale «Eredità e attualità del Futurismo», Roma, Centro Culturale Elsa Morante, 11-12 aprile 2013. Il titolo era «Al di là del futurismo. Libri riviste immagini del Movimento ’77» a commento delle immagini che trovate su questo file:
Al di là del Futurismo. Libri e riviste del Movimento ’77
Una cronologia e una collezione di libri e documenti sul Movimento ’77 si trova nel catalogo Dopo Marx aprile, Gussago, Edizioni dell’Arengario, 2007.