CARLI Mario
(Sansevero 1889 - Roma 1935)
Con D'Annunzio a Fiume
Luogo: Milano
Editore: Facchi Editore
Stampatore: Tipografia A. Colombo e Figli
Anno: 1920 (31 ottobre)
Legatura: brossura
Dimensioni: 20x13 cm.
Pagine: pp. 158 (2)
Descrizione: copertina illustrata con un ritratto fotografico di D'Annunzio virato a sanguigna. Prima edizione.
Bibliografia: Claudia Salaris, «Bibliografia del Futurismo», Roma, Biblioteca del Vascello, 1988: pag. 28
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"Il gesto fu di una significazione infinita. Pochi ne han vista tutta la portata. Ma l'avvenire glori­ficherà indubbiamente questo Artista che ha spez­zato d'un colpo le vecchie tavole della legge, che si è levato altissimo sulla tradizione d'obbedienza che fino a ieri aveva legata in povertà di pensiero anche i capi più illustri e gloriosi; questo eterno Giovane che non ha mai visto così chiaro e lontano come da quando la guerra l'ha quasi accecato; que­sto gaio rapitore di ogni bella luce del mondo, che è venuto a Fiume con un'automobile fiorita, di sorrisi e di amabilità chiaroveggenti; questo Dominatore di velluto, che comanda attraverso immagini di poesia e sa farsi obbedire per il solo suo fascino fino alla morte. Egli ha portato a Fiume il senso della libertà personale, della disciplina spontanea, della supremazia dello spirito, e l'eleganza leggera e spumeg­giante della genialità più italiana. Non so quanti abbiano capito questo. Certo che, vivergli accanto un'ora, significa abbeverarsi di que­st'atmosfera superiore fatta di serena veggenza, di grazia signorile e di giovanile letizia. Gabriele d'Annunzio è il primo artista, il primo italiano geniale a cui sia stata conferita una potestà di governo. Ciò si riallaccia al precedente glorioso di Lamartine e di Victor Hugo, ed è il segno precursore che siamo destinati a una civiltà più luminosa: quella che darà il comando alla intelligenza e alla poesia. Sono i primi barlumi che scaturiscono dal ma­terialismo mercantile di questa epoca di brancola­menti. E' una delle vittorie più tangibili della grande guerra. Forse, il fatto più radicalmente rivoluzionario che essa abbia creato. Quando l'umanità sentirà così fortemente il fa­scino e l'imperio del genio, quando cioè si sentirà più vicina a lui e più capace di comprenderlo, non esiterà a dargli la direzione della cosa pubblica. Sarà la vera epoca individualista. L'ascesa delle masse al disopra dei problemi economici risolti vit­toriosamente, le porterà allo sviluppo centrifugo delle personalità, e insieme, alla pacificazione, nella luce calda e magnetica del genio che riassuma e perso­nifichi la razza. L'amore per l'arte, straripata indefinitamente, farà di ogni uomo l'artista della propria vita, e le pas­sioni che oggi si aggirano intorno al denaro ed al sesso, si riverseranno gioiosamente sui colori, sulle armonie, sugli equilibri, sulle scoperte, sulle ricerche; insomma sui giochi e le bizzarrie dell'intelligenza che basteranno a riempire una vita. Gabriele d'Annunzio è l'iniziatore di questa dinastia di geniali, destinati ad imprimere nella politica come nell'arte, il ritmo nuovo di un nuovo mondo finora sconosciuto alle folle: il mondo abissale e stellare dello spirito". (pp. 64-66).

"Così il Reparto degli Ignoranti, comandato dall'ignorantissimo Capitano Argentino, ha proclamato di credere prima in d'Annunzio, poi in dio, poi nel suo capitano" (pag. 74).

"Noi siamo oggi gli unici eredi del senso rivoluzionario della guerra, e proclamiamo che la nostra ribellione di fuorusciti è l'unico fatto realmente e italianamente rivoluzionario del dopo guerra" (pag. 75).

"Questa sera [27 ottobre 1919] per la prima volta i Fiumani assistono a uno spettacolo di teatro futurista. Gli amici dell'8° Reparto hanno avuto un'iniziativa coraggiosa e simpatica. (...) Questi arditi che non fanno parte del movimento futurista e non sono autori di nessuno dei lavori presentati, volendo fare una rappresentazione ardita, non hanno potuto scegliere se non del Teatro Futurista. E l'hanno fatto spontaneamente, per simpatia istintiva, senza che nessun futurista abbia influito sulla loro volontà..." (pp. 95-96).

"Prendendo la Russia come modello tipico di rivoluzione sociale, si vede anzitutto che il bolscevismo è stato un movimento, non tanto grettamente espropriatore, quanto rinnovatore, perché ha voluto ricostituire in base a ideali vasti e profondi l'edificio sociale, assurdamente sbilenco sotto il decrepito regime zarista. Inoltre il bolscevismo russo, animato da un potente soffio di misticismo, non si è mosso con quei criterii di pacifismo codardo, che fanno dei cortei proletarii italiani altrettante processioni d'innocenti agnellini (...). Il popolo russo ha saputo anche difendere la sua rivoluzione, e gli eserciti di Lenin si sono battuti, spesso, vittoriosamente, contro i bianchi paladini della reazione. Assodato poi che i socialisti italiani non credono nella rivoluzione, non la vogliono e non fanno nulla per provocarla, possiamo stabilire in modo definitivo che noi legionarii non avremo mai alcun contatto, e neppure alcun cenno d'approccio, con quella ottusa cocciuta grettissima cretinissima Chiesa che è il Partito Ufficiale Socialista italiano..." (pag. 106-107).

"Il nostro sogno più caro di artisti e di lottatori è sempre stato quello di sollevare la miseria materiale e spirituale delle masse, e se domani avremo modo di sopprimere in loro prima la fame, poi l'ignoranza, potremo dire di aver raggiunto uno degli obiettivi fondamentali di tutta la nostra azione. Noi chiediamo di meglio che chiamare accanto alle élites anche i rappresentanti del «numero» a partecipare alla vita collettiva, a decidere dei propri interessi e del proprio destino. Il soviet (altra parola-spauracchio per i mosci borghesi di tutti gli Stati) è un prodotto così ragionevole e così utile dei nuovi tempi, ed è già così diffuso, sotto la forma sindacale, negli ambienti amministrativi e industriali, che non si capisce perché non debba entrare senz'altro nella vita politica e militare" (pag. 109).

"Ma indiscutibilmente Fiume e Mosca sono due rive luminose. Bisogna, al più presto, gettare un ponte fra queste due rive" (pag. 110).

"Siamo poeti. Evviva! Ma dei poeti che vogliono e sanno vivere. Dei cercatori di formule nuove e di sostanza occulta. Ci siamo lanciati allegramente in questa suprema avventura dello spirito, in fondo alla quale ignoriamo ciò che ci attende. Intanto, chiamateci pure «bolscevichi». Credo che nel nostro spirito, munito di ogni comfort, ci sia posto anche per il bolscevismo. Ma non limitateci, per carità! (...) Non vogliamo cartellini o barriere o traguardi fissi. (...) Intanto Gabriele d'Annunzio oggi è chiamato "compagno" dai proletari di Fiume, come ieri fu chiamato «caporale» dagli arditi e «sergente» dai bersaglieri. Non meravigliatevi di nulla: domani egli potrebbe celebrare un rito di fachiri o danzare una "fantasia" con gli arabi civilizzatissimi dell'Egitto" (pp. 124-125).

"Ebbene, compagni memori, quella stessa deduzione e quello sdegno rovente e quel desiderio di fuggire dalle città per tornare subito «lassù» dove c'era dell'amore e dell'eroismo, dove c'era bontà generosa e coraggio e giovinezza vera, io l'ho sentito in questi giorni, affacciandomi in una città qualunque dell'Italia dopo un lungo periodo di delizioso esilio fiumano. Nausea, schifo, indignazione. Bisogno di ribellarsi e di roteare un poderoso randello frantumando tutto ciò che si ha intorno. Bisogno di urlare con violenza nel bel mezzo di un ambiente vigliaccamente tranquillo ed elegante. Desiderio prepotente di dire ad ogni passo, ad ogni muso che s'incontra, ad ogni smorfia che si sorprende: - Porci! Carogne! Miserabili!" (pag. 132).

"I comizi e i cortei di Fiume si formano istantaneamente, con rapidità fulminea: basta che una sirena fischi o che una fanfara suoni, e la dimostrazione è composta, e dilaga per tutta la città. (...) Basta vivere qui in un giorno di festa, per afferrare il lato veramente futurista di questi movimenti di folla. Il fatto che essa è composta per metà almeno di donne, contribuisce a renderla più fresca e più lirica. (...) Non avevo mai udito una piazza o un teatro gremito cantare con tanta violenza appassionata l'Inno degli Arditi, che qui tutti sanno a memoria e che ha preso il posto della Marcia Reale come inno ufficiale di tutte le occasioni" (pag. 143).

"Le rivoluzioni non si fanno dopo pranzo" (pag. 153).

ESEMPLARE IN COLLEZIONE: esemplare con firma autografa di Francesco Bonafede, collaboratore della rivista «La Ghebia» diretta da Giovanni Marescalchi. NON DISPONIBILE