BOULENGER Marcel Jacques Amand Romain
(Parigi 1873 - Chantilly 1932)
Con Gabriele d'Annunzio. Traduzione di Aldo e Alberto Gabrielli, unica autorizzata e approvata dall'Autore
Luogo: Foligno
Editore: Franco Campitelli Editore
Stampatore: Reale Stab. Tipografico F. Campitelli
Anno: 1925
Legatura: buona legatura cartonata non editoriale di epoca recente, copertina, dorso e quarta di copertina conservati e applicati
Dimensioni: 20x13,8 cm.
Pagine: pp. 184 (8)
Descrizione: copertina illustrata a sanguigna con il motto "Hic Manebimus Optime" di Aldo Gabrielli, 5 tavole in bianco e nero f.t. (fra cui 3 ritratti di Gabriele D'Annunzio). Libro dedicato "Ai morti del Natale di Fiume". Prima edizione italiana.
Bibliografia: N. D.
Prezzo: € 60ORDINA / ORDER
Opera pubblicata per la prima volta col titolo «Chez Gabriele d'Annunzio», nel 1921 (ottobre/dicembre).
"Fiume è divenuta, nel senso più alto della parole, una città santa. [...] A mano a mano che ci si avvicina alla città, specialmente dopo Trieste, il treno assume l'aspetto di un convoglio di pellegrini. Ma che strani pellegrini! Una turba singolare di gente, venuta da ogni parte d'Italia per vedere d'Annunzio: giovani, e ancora giovani, talvolta giovanissimi, addirittura efebi [...]. Gli occhi di tutti brillano, sorridono, scintillano animati da una doppia vita: né vi si legge indifferenza, fastidio, o quella forma di alterigia idiota che si riscontra altrove, negli snob di tutto il mondo. [...] Questi credenti dallo sguardo risplendente vanno là con letizia a comunicarsi in italianità, e si ha l'impressione che non vi siano né ricchi né poveri, tra di essi, tanto è piena la loro fraternità spensierata: null'altro che italiani, insomma. E belli! La giovinezza italica - quella, intendiamo, dai diciotto ai trent'anni - è atleticamente magnifica. [...] Larghe spalle, vita snella, statura drittissima, testa fiera, passo disinvolto..." (pp. 59 - 60).
"Ad Abbazia, stazione di frontiera tra l'Italia e il nuovo Stato del Carnaro, cominciano alcune difficoltà: dogana, passaporti ecc. A Fiume non può entrar nessuno, né sul suo territorio: la città e i dintorni sono stretti dalle truppe, non bisogna dimenticarlo. Certo, non si tratta di un assedio paragonabile a quello di Sebastopoli: i viveri passano, e gran numero di civili, e anche di ufficiali, persino in uniforme. [...] Breve, si chiudon gli occhi: dal momento che vi sono degli uomini che pensano a risparmiarsi reciprocamente ogni noia, si adotta il sistema del "chiudiamo un occhio"..." (pag. 61).
"Nella stazione di Fiume, frastuono di grida, canti di entusiasmo in onore dei pellegrini ora giunti, folla di giovani arditi che applaude. Entusiasmo e fede, ardor religioso, onda di giovinezza, ecco l'atmosfera di Fiume [...]. Qui siamo in una città santa, bruciante d'amore. I soldati di Gabriele d'Annunzio [...] portano la stessa uniforme dell'esercito italiano. Se non che, la loro giubba - costellata di nastrini e di croci, poiché il men valoroso giovine fiumano è un eroe della grande guerra - ha il bavero a rivolte, come quello degli ufficiali dell'esercito inglese; inoltre la camicia aperta (a Fiume fa caldo) è rovesciata su la giubba stessa, come la portano i giocatori di tennis. Molti conservano il berretto; ma la maggioranza ha il fez, simile a quello dei nostri zuavi, che è poi il copricapo di riposo dei bersaglieri; con questa differenza, che invece di esser rosso, è nero. Nove su dieci, questi volontarii hanno il viso interamente sbarbato, giacché la gioventù italiana ha ripudiato definitivamente i baffi. Inoltre sembra sia quintessenza di eleganza, fra le truppe del Carnaro, quella di portare una foresta di capelli lunghissimi su la fronte, generosamente rigettati indietro, e di solito ribelli" (pp. 64-65).
"Ecco, per cominciare, la loro uniforme (estiva, naturalmente): il fez nero, che riesce appena a contenere delle ribelli capellature rialzate su la fronte, quando addirittura - come accade novantanove volte su cento - queste non consentono la costrizione del fez; la giubba grigio verde corta, aperta per largo spazio davanti, su petti tutti muscoli; i nastrini e le croci, il cinturino, il fucile; poi, un paio di mutandine corte da podisti, e le gambe nude dall'alto delle cosce fino ai calzettoni che ricadono negligentemente su le grosse scarpe militari. Descritta così la tenuta perfettamente sportiva della compagnia d'Annunzio, essa può sembrar forse strana e anche, a prima vista, può far sorridere; ma quando si vedon, sotto il sole, tutti questi baldi giovani col petto nudo, le gambe nude, eseguire i loro esercizii con scrupolosa esattezza, e maneggiare ai tiri la mitragliatrice, e correre per un centinaio di metri, il fucile in mano, e poi scagliar la bomba, l'impressione è certo ben diversa. Sono accantonati su la banchina stessa del porto, e il loro campo di manovre è percosso dalle onde adriatiche: così si spiega perché sieno abbronzati come mori. Hanno occhi e denti smaglianti in volti di corsari, su i quali, dopo le istruzioni, ricadono i capelli selvaggi. [...] Inoltre, i campioni della d'Annunzio hanno un portafortuna, pittoresco almeno quanto loro: un vecchio sergente sardo, arruolato nel reparto e prossimo ai settanta [...]. Rubizzo e dritto, questo vecchio fa pompa, non senza civetteria, di una capellatura candida come neve, abbondante e folta, e, bastone alla mano, va di qua e di là, fra i soldati che sembrano suoi figli, come un centurione canuto, rudero augusto delle guerre cartaginesi" (pp. 90-91).
- "Verso le quattro il movimento della folla, il rombo delle strade popolose, si spostarono verso il Palazzo Nazionale: vale a dire il Municipio. Vi doveva aver luogo una cerimonia di capitale importanza per la Reggenza: in nome della città il sindaco doveva conferire solennemente la cittadinanza ai 6000 uomini della legione che il Comandante avea quel mattino passati in rivista. In rappresentanza di tutti i suoi soldati, il Comandante in persona andava per essi a ricevere il diritto di cittadinanza. [...] Ecco, d'improvviso, senza tamburo né trombe entrano tre ufficiali: il podestà e due assessori, ai quali se ne aggiungeva un quarto: il Comandante. Allora, subito, avvenne qualcosa che non sapremmo ridire: colui che parlava restò a bocca aperta, l'altro che faceva un gesto, lo lasciò a mezzo; cone un senso di soffocazione gravò in un attimo, su l'assemblea; poi, come l'uragano, come la folgore, come le stimmate dei santi, l'amore universale si abbatté sul Maestro, esplose ai suoi piedi, lo travolse, lo invase! Per un quarto d'ora, venti minuti forse, i quattro ufficiali se ne restarono in piedi, immobili, ammutoliti e quasi soffocati, i magistrati pubblici dietro il lor tavolo, Lui, solo, ineffabilmente pallido, addossato al muro, respinto fin là, sopraffatto e quasi schiacciato contro la parete dalla violenza dell'entusiasmo, dalla folle tenerezza, dal delirio popolare! Egli avea reclinata la testa, non si moveva, piangeva forse. E l'acclamazione dell'amore frenetico continuava, s'inalzava al parossismo: eran gridi, ormai, né più vi era parola adatta ad esprimer la potenza dell'amore. Un'operaio, dietro di noi, ripeteva senza tregua: - E' un Dio! E' un Dio!... - Non potendo più stare in sé, quell'uomo gridava senza stancarsi: «E' bello come un Dio!». [...] Alla fine, [...] il podestà sonò il campanello, e lentamente, come quando si allontana una tormenta, il silenzio, un silenzio profondo si fece. Il podestà lesse un'orazione nobile e calorosa, nella quale chiedeva al Comandante se egli accettava, in nome di tutti i legionarii, la nazionalità fiumana. E, con voce semplice, contratta ancora dal terribile e meraviglioso sforzo di dominarsi, quegli rispose: - Accetto. - Era la prima parola che pronunciava, dopo il suo ingresso nella sala. Poi, [...] nuovamente il Comandante parlò. Come al teatro della Fenice, come su la piazza Dante, come dovunque, egli improvvisò. E l'oratore senza eguali, ancora una volta, superò se stesso..." (Marcel Boulenger, «Con Gabriele D'Annunzio», Foligno, Campitelli, 1925: pp. 108-111. Trad. it. di Aldo e Alberto Gabrielli).
ALTRO ESEMPLARE: brossura originale [NON DISPONIBILE - IN COLLEZIONE].
"Fiume è divenuta, nel senso più alto della parole, una città santa. [...] A mano a mano che ci si avvicina alla città, specialmente dopo Trieste, il treno assume l'aspetto di un convoglio di pellegrini. Ma che strani pellegrini! Una turba singolare di gente, venuta da ogni parte d'Italia per vedere d'Annunzio: giovani, e ancora giovani, talvolta giovanissimi, addirittura efebi [...]. Gli occhi di tutti brillano, sorridono, scintillano animati da una doppia vita: né vi si legge indifferenza, fastidio, o quella forma di alterigia idiota che si riscontra altrove, negli snob di tutto il mondo. [...] Questi credenti dallo sguardo risplendente vanno là con letizia a comunicarsi in italianità, e si ha l'impressione che non vi siano né ricchi né poveri, tra di essi, tanto è piena la loro fraternità spensierata: null'altro che italiani, insomma. E belli! La giovinezza italica - quella, intendiamo, dai diciotto ai trent'anni - è atleticamente magnifica. [...] Larghe spalle, vita snella, statura drittissima, testa fiera, passo disinvolto..." (pp. 59 - 60).
"Ad Abbazia, stazione di frontiera tra l'Italia e il nuovo Stato del Carnaro, cominciano alcune difficoltà: dogana, passaporti ecc. A Fiume non può entrar nessuno, né sul suo territorio: la città e i dintorni sono stretti dalle truppe, non bisogna dimenticarlo. Certo, non si tratta di un assedio paragonabile a quello di Sebastopoli: i viveri passano, e gran numero di civili, e anche di ufficiali, persino in uniforme. [...] Breve, si chiudon gli occhi: dal momento che vi sono degli uomini che pensano a risparmiarsi reciprocamente ogni noia, si adotta il sistema del "chiudiamo un occhio"..." (pag. 61).
"Nella stazione di Fiume, frastuono di grida, canti di entusiasmo in onore dei pellegrini ora giunti, folla di giovani arditi che applaude. Entusiasmo e fede, ardor religioso, onda di giovinezza, ecco l'atmosfera di Fiume [...]. Qui siamo in una città santa, bruciante d'amore. I soldati di Gabriele d'Annunzio [...] portano la stessa uniforme dell'esercito italiano. Se non che, la loro giubba - costellata di nastrini e di croci, poiché il men valoroso giovine fiumano è un eroe della grande guerra - ha il bavero a rivolte, come quello degli ufficiali dell'esercito inglese; inoltre la camicia aperta (a Fiume fa caldo) è rovesciata su la giubba stessa, come la portano i giocatori di tennis. Molti conservano il berretto; ma la maggioranza ha il fez, simile a quello dei nostri zuavi, che è poi il copricapo di riposo dei bersaglieri; con questa differenza, che invece di esser rosso, è nero. Nove su dieci, questi volontarii hanno il viso interamente sbarbato, giacché la gioventù italiana ha ripudiato definitivamente i baffi. Inoltre sembra sia quintessenza di eleganza, fra le truppe del Carnaro, quella di portare una foresta di capelli lunghissimi su la fronte, generosamente rigettati indietro, e di solito ribelli" (pp. 64-65).
"Ecco, per cominciare, la loro uniforme (estiva, naturalmente): il fez nero, che riesce appena a contenere delle ribelli capellature rialzate su la fronte, quando addirittura - come accade novantanove volte su cento - queste non consentono la costrizione del fez; la giubba grigio verde corta, aperta per largo spazio davanti, su petti tutti muscoli; i nastrini e le croci, il cinturino, il fucile; poi, un paio di mutandine corte da podisti, e le gambe nude dall'alto delle cosce fino ai calzettoni che ricadono negligentemente su le grosse scarpe militari. Descritta così la tenuta perfettamente sportiva della compagnia d'Annunzio, essa può sembrar forse strana e anche, a prima vista, può far sorridere; ma quando si vedon, sotto il sole, tutti questi baldi giovani col petto nudo, le gambe nude, eseguire i loro esercizii con scrupolosa esattezza, e maneggiare ai tiri la mitragliatrice, e correre per un centinaio di metri, il fucile in mano, e poi scagliar la bomba, l'impressione è certo ben diversa. Sono accantonati su la banchina stessa del porto, e il loro campo di manovre è percosso dalle onde adriatiche: così si spiega perché sieno abbronzati come mori. Hanno occhi e denti smaglianti in volti di corsari, su i quali, dopo le istruzioni, ricadono i capelli selvaggi. [...] Inoltre, i campioni della d'Annunzio hanno un portafortuna, pittoresco almeno quanto loro: un vecchio sergente sardo, arruolato nel reparto e prossimo ai settanta [...]. Rubizzo e dritto, questo vecchio fa pompa, non senza civetteria, di una capellatura candida come neve, abbondante e folta, e, bastone alla mano, va di qua e di là, fra i soldati che sembrano suoi figli, come un centurione canuto, rudero augusto delle guerre cartaginesi" (pp. 90-91).
- "Verso le quattro il movimento della folla, il rombo delle strade popolose, si spostarono verso il Palazzo Nazionale: vale a dire il Municipio. Vi doveva aver luogo una cerimonia di capitale importanza per la Reggenza: in nome della città il sindaco doveva conferire solennemente la cittadinanza ai 6000 uomini della legione che il Comandante avea quel mattino passati in rivista. In rappresentanza di tutti i suoi soldati, il Comandante in persona andava per essi a ricevere il diritto di cittadinanza. [...] Ecco, d'improvviso, senza tamburo né trombe entrano tre ufficiali: il podestà e due assessori, ai quali se ne aggiungeva un quarto: il Comandante. Allora, subito, avvenne qualcosa che non sapremmo ridire: colui che parlava restò a bocca aperta, l'altro che faceva un gesto, lo lasciò a mezzo; cone un senso di soffocazione gravò in un attimo, su l'assemblea; poi, come l'uragano, come la folgore, come le stimmate dei santi, l'amore universale si abbatté sul Maestro, esplose ai suoi piedi, lo travolse, lo invase! Per un quarto d'ora, venti minuti forse, i quattro ufficiali se ne restarono in piedi, immobili, ammutoliti e quasi soffocati, i magistrati pubblici dietro il lor tavolo, Lui, solo, ineffabilmente pallido, addossato al muro, respinto fin là, sopraffatto e quasi schiacciato contro la parete dalla violenza dell'entusiasmo, dalla folle tenerezza, dal delirio popolare! Egli avea reclinata la testa, non si moveva, piangeva forse. E l'acclamazione dell'amore frenetico continuava, s'inalzava al parossismo: eran gridi, ormai, né più vi era parola adatta ad esprimer la potenza dell'amore. Un'operaio, dietro di noi, ripeteva senza tregua: - E' un Dio! E' un Dio!... - Non potendo più stare in sé, quell'uomo gridava senza stancarsi: «E' bello come un Dio!». [...] Alla fine, [...] il podestà sonò il campanello, e lentamente, come quando si allontana una tormenta, il silenzio, un silenzio profondo si fece. Il podestà lesse un'orazione nobile e calorosa, nella quale chiedeva al Comandante se egli accettava, in nome di tutti i legionarii, la nazionalità fiumana. E, con voce semplice, contratta ancora dal terribile e meraviglioso sforzo di dominarsi, quegli rispose: - Accetto. - Era la prima parola che pronunciava, dopo il suo ingresso nella sala. Poi, [...] nuovamente il Comandante parlò. Come al teatro della Fenice, come su la piazza Dante, come dovunque, egli improvvisò. E l'oratore senza eguali, ancora una volta, superò se stesso..." (Marcel Boulenger, «Con Gabriele D'Annunzio», Foligno, Campitelli, 1925: pp. 108-111. Trad. it. di Aldo e Alberto Gabrielli).
ALTRO ESEMPLARE: brossura originale [NON DISPONIBILE - IN COLLEZIONE].