FRASSETTO Riccardo
I disertori di Ronchi. L'organizzazione della marcia su Fiume - La diserzione dei granatieri - Lo stato libero del Carnaro - Il Natale di sangue
Luogo: Milano
Editore: Casa Editrice Carnaro
Stampatore: Tip. L. Bonfiglio - Milano
Anno: 1926 (1 aprile)
Legatura: legatur< coeva in tela, copertina non conservata
Dimensioni: 19x12,5 cm.
Pagine: pp. 462 (2)
Descrizione: 16 tavole f.t. con numerose illustrazioni fotografiche in bianco e nero. Importante documentazione iconografica con i ritratti fotografici di molti fra i protagonisti e significativa raccolta di testi di volantini, discorsi, comunicati di D'Annunzio per la gran parte. Testimonianza diretta da parte di uno dei protagonisti della preparazione e della realizzazione dell'impresa. Con l'elenco in ordine alfabetico dei caduti e di tutti i legionari che parteciparono alle cinque giornate del Natale di sangue. Prima edizione.
Bibliografia: N. D.
Prezzo: € 150ORDINA / ORDER
"La Storia non può dimenticare che da Ronchi nella notte sul 12 settembre 1919 un battaglione di granatieri (di cui soltanto 287 uomini poterono aggrapparsi agli autocarri insufficienti) guidato da Gabriele d'Annunzio, costituì l'elemento decisivo dell'azione: quel pugno di uomini disperati che correvano incontro alla morte o alla gloria - o forse incontro a tutt'e due - divenne valanga irresistibile alla porte di Fiume, valanga che attrasse e trascinò sul suo cammino soldati italiani di ogni Corpo e Arma [...]. L'Autore di questo libro ha vissuto tutta la passione fiumana. Fu uno dei Sette Ufficiali dei granatieri che avevano «segnato il patto», che avevano giurato tutta la loro fede alla Città Olocausta. I particolari della preparazione della Marcia di Ronchi, non potevano trovare quindi un narratore più autorevole e più sicuro" (pp. 6-7).
"Improvvisamente, la mattina del 24 agosto, noi ufficiali fummo riuniti a rapporto. Ci venne letto dal Maggiore Reina l'ordine di partenza. Segreto, segretissimo. Dovevamo partire a mezzanotte dello stesso giorno. Francamente, più astuti di così i membri della commissione d'inchiesta non avrebbero potuto essere. Essi volevano sorprendere i fiumani nel sonno. E volevano che quelle stesse truppe entrate a Fiume alla luce del sole e accolte trionfalmente, rifacessero la via del ritorno protette dalle tenebre, per evitare altre complicazioni internazionali. Ma l'ordine non poteva essere da noi digerito con troppa facilità. Eravamo militari, è vero; ma costringerci ad un gesto di così palese umiliazione era inumano e assurdo. [...] Alla mensa quel giorno tutti, più o meno calorosamente, protestammo in nome di un diritto umano, contro un'imposizione bestiale. Ma l'ordine c'era, e il tempo che ci separava dall'esecuzione era breve, brevissimo. Nel pomeriggio noi più ribelli ci riunimmo nella mia camera, a Sussak. C'erano il capitano Sovera, il tenente Rusconi, i sottotenenti Grandjacquet, Cianchetti, Ciatti, Brichetti, Adami ed io. [...] Vediamo se è possibile smuovere i capi popolari, e convincerli che la partenza dei granatieri sarebbe un ottimo pretesto per rinnovare in maggiori e più decisive proporzioni la volontà dei fiumani di essere annessi all'Italia. [...] Avemmo l'impressione, in un certo momento, di trovarci di fronte a tanti rammolliti. Così giudicammo più pratico e più fattivo agire per nostro conto" (pp. 21-23).
"Noi eravamo intontiti. Mi sentii tirare da tutte le parti, strappare le stellette, afferrare per il lembo della giubba, sferzare da rami di lauro e stringere da cento, da mille mani, e mi venne una gran voglia di piangere" (pag. 30).
"Ah! Un'idea: bisogna chiedere a un ferroviere a che ora passa da Mattuglie il primo treno diretto a Fiume. - Alle sette in punto, - risponde l'interpellato. Mancano cinque minuti. - Ragazzi, bisogna mandare un saluto a Fiume, col primo treno. - E via tutti, di corsa, in cerca di gesso. Assaltiamo un'osteria nei pressi della stazione. Alcuni pigliano di petto il capo stazione, e il gesso è bell'è trovato. O meglio, requisito, per alte ragioni d'interesse nazionale. Eccoci tutti pronti, coll'asticciuola bianca fra le dita, in attesa del convoglio. Arriva poco dopo. Secondo assalto. Questa volta ai carrozzoni, che per l'occasione si trasformano in larghe e lunghe lavagne viaggianti. In un batter d'occhio tutti gli spazi disponibili vengono ricoperti di scritte bianche: "Fiume o morte!"; "Fiumani, i granatieri vi hanno nel cuore"; "Non vi abbandoneranno"; "Torneranno, non ne dubitate"; e diecine e diecine di indirizzi di questo genere. Due carabinieri mettono fuori la lucerna dal finestrino e ci guardano stupiti. Non capiscono nulla di tutto questo fervore grafico..." (pag. 35).
"Ci presentiamo: - Frassetto. - Sanguineti. - Simoni. - Keller. C'è in tutti sul principio un senso di mistero, che circonda ogni frase ed ogni gesto [...] ma l'aria dolce e il sole tiepido e un profumo sottile di salmastro e di rose e una complice quiete che abbraccia tutto e tutti, fa sì che in poco tempo ci sentiamo amici. E' forse un non confessato sentimento d'amore, che da giorni e giorni ci spinge verso un orizzonte di luce, di cui non ancora abbiamo potuto intravedere i contorni. E' forse un desiderio immenso di donare, di donare senza limiti, senza restrizioni, senza compensi. E' una mania strana, inusitata prepotente, che ci ha preso tutti, sconosciuti ed amici, in un contagio che non si può isolare, in uno straripamento che non si può arginare. Mi sento amico di questi tre sconosciuti, che mi hanno guardato per la prima volta come si guarda un fratello. [...] All'una e mezzo Gabriele d'Annunzio, in tenuta di tenente colonnello dei lancieri di Novara, scende dalla sua camera. Ha sul petto soltanto i segni delle ricompense al valore e la placca di mutilato" (pp. 68-69).
- “La mattina alle ore 11 dell’8 ottobre, Mussolini giungeva in Fiume dalle vie dell’aria. Egli proveniva dal campo d’aviazione di Novi Ligure a bordo di uno Sva rapidissimo pilotato dal ten. Carlo Lombardi della 74a Squadriglia da caccia. Egli venne subito ricevuto dal comandante col quale conferì lungamente in merito alla situazione di Fiume e dell’Italia. Ripartì l’indomani festeggiato dal Comandante e dai legionarii, con lo stesso velivolo che per un guasto avvenuto dovette atterrare nel campo di Ajello, da dove Mussolini proseguì per Firenze, in tenuta di volo, per assistere in tempo alla apertura del primo congresso nazionale dei Fasci Italiani di Combattimento” (pag. 138).
"La spedizione di Zara era stata decisa in un Consiglio di guerra tenutosi il giorno undici novembre e al quale avevano preso parte, oltre al Comandante, i generali Ceccherini e Tamaio, il colonnello Rossi, comandante l'artiglieria, il colonnello Giuriati e qualche altro. Nel massimo segreto furono fatti tutti i preparativi; il funzionamento del telegrafo e del telefono venne completamente sospeso. La partenza avvenne nella notte del 14 novembre. Sul cacciatorpediniere «Francesco Nullo» erano saliti col Comandante, Luigi Rizzo, il capitano Host-Venturi, il tenente di vascello Ceccherini, il maggiore Reina, il capitano Coselschi e il tenente aviatore Keller. Nelle altre navi - la Cortellazzo, la torpediniera 66 P.N. e un Mas - si imbarcarono reparti di marinai e soldati al comando dei loro ufficiali. Alle ore 16 del giorno 15 la spedizione era già di ritorno e tutta Fiume ormai consapevole dell'avvenimento trovavasi a ricevere il Comandante. La narrazione dei particolari dello sbarco di Zara venne fatta dallo stesso comandante dalla ringhiera del palazzo dove il popolo era accorso in folla ansioso di sapere i risultati di quella spedizione" (pp. 142-143).
“La partenza del primo scaglione diretto in Italia era fissata per il giorno 21. Poche ore prima si svolse al Teatro Fenice la solenne consegna della bandiera nazionale offerta dalle donne milanesi al Comando di Città. […] Il Comandante, preso da commozione per lo spettacolo di tutti quei bimbi partenti, esordì dicendo che «come nell’antico tempo, quando imperversava la lebbra, tutti credevano che nessuna medicina fosse efficace a guarirla, fuorché il sangue dei bambini, così i bimbi fiumani sono invitati in Italia a guarirla dalla lebbra della sfiducia e della miseria morale in cui è caduta». […] Alla stazione ferroviaria era frattanto convenuta tutta la popolazione. Rano uomini e donne di tutte le età che piangevano di commozione per quello spettacolo nuovo ai loro occhi. Tutti recavano fiori ai piccoli innocenti che lasciavano le loro famiglie per l’ospitalità di una città generosa. Le mamme erano strette ai loro bnimbi partenti e il dolore del distacco trovava conforto solo in quella indimenticabile manifestazione di amore intorno alle loro creature. […] La visione di quella Crociata di innocenti toccava profondamente il cuore del popolo di Fiume” (Riccardo Frassetto, «I disertori di Ronchi», Milano, Casa Editrice Carnaro, 1926: pp. 155-157).
“Il capitano Vadalà aveva ordinato ai suoi carabinieri (oltre 200 uomini) di tenersi pronti per abbandonare la città. Con essi avrebbe dovuto partire un certo numero di fanti della Brigata Firenze. Questo fatto di palese rivolta indignò grandemente il Comandante il quale alle ore 16 dello stesso giorno dava ordine che i RR. CC. Partissero subito non potendosi tollerare in città la presenza di truppe ribelli armate. Nel contempo impartiva ordini ad alcuni comandanti di reparto di sorvegliare l’uscita per evitare incidenti di qualsiasi sorta. Questo perché gli Arditi, eccitatissimi, minacciavano di esemplare punizione i traditori. Tutto ciò fu evitato solo in parte. Infatti , in prossimità della sbarra di Cantrida, essendo rimasto colpito alla testa un ufficiale dei granatieri che aveva tolto ai carabinieri il gagliardetto donato loro in passato dalle donne fiumane, il conflitto scoppiò improvviso. Malgrado la presenza dei loro ufficiali, gli arditi costrinsero alla fuga i traditori a sputi e bombe a mano. Si ebbero a deplorare tre morti: due carabinieri e un borghese e diversi feriti da entrambe le parti” (pag. 178).
“Quando a Fiume giunse la notizia degli arresti fatti operare da Nitti dei fiumani e dei dalmati residenti a Roma, la città ebbe tutto un sussulto di ribellione e di sdegno. Gli arresti erano stati eseguiti nel cuore della notte del 25 maggio e fra essi vi erano quelli dei delegati del Consiglio Nazionale di Fiume: il venerando Grossich, presidente, e i signori Rudan e Nascimbeni. Tutta la città era in piedi la sera del 26. Dalla ringhiera del palazzo parlò a quella folla immensa il Comandante, con accenti di invincibile nausea per quanto avveniva in Italia. […] Dopo il vivacissimo discorso del Comandante la folla si riversò in colonna per le vie della città continuando a imprecare contro il governo di Roma. Giunta poi al ponte di Sussak travolse la barra invadendo la borgata croata facendo un grande falò di tutti gli sbarramenti cagoiani sotto gli occhi benevoli della truppa regolare” (pp. 180-181).
- “Poiché il disorientamento degli animi durava ancora, e l’incertezza anzi gravava più cupa dopo le dimissioni del Consiglio Nazionale lo slancio del popolo verso il Comandante fu tanto impetuoso e spontaneo, anche per attestare, nella svolta repentina degli avvenimenti, alla vigilia dell’anniversario di Ronchi, che «la fede e la forza del popolo libero» erano tuttora con lui. […] L’immensa folla era composta di cittadini rappresentanti di tute le classi sociali; i legionari, consegnati nelle caserme sin dalla mattinata, mancavano del tutto. Si può dire che la città intera fosse raccolta nella storica piazza, innanzi alla bandiera di Randaccio […] distesa sulla storica ringhiera fra festoni di lauro, armonicamente disposti. C’era nell’aria il tremito della vita nuova. Alle 19 il Comandante s’affacciò un momento alla finestra della sua stanza da lavoro: subito la folla lo scorse e lo invocò alla ringhiera con un lungo, insistente applauso cambiatosi in una frenetica acclamazione non appena il Liberatore apparve sulla terrazza seguito dal generale Ceccherini, dall’on. De Ambris, dal colonnello Sani, da un numeroso stuolo di ufficiali. Squillarono le trombe, le voci della moltitudine acclamante si placarono, il silenzio si fece profondo e solenne. Gabriele d’Annunzio cominciò il suo discorso con voce da prima velata per la commozione intensa del suo cuore, poi gli accenti si fecero sempre più chiari e vibranti. Una stretta calda continua corrispondenza era fra il Capo e il suo popolo; la folla comprendeva con rapida percezione i suoi sentimenti, i suoi propositi, rispondeva pronta e sicura alle sue domande, faceva conoscere, alta e precisa, la propria volontà” (pp. 222-224).
Dopo il suo discorso D’Annunzio pronunciò il solenne giuramento con cui veniva proclamata la Reggenza Italiana del Carnaro. Al termine della proclamazione “l’immensa folla proruppe in un formidabile grido, in una delirante acclamazione. Squillarono le trombe, il fragore del popolo plaudente salì al cielo limpido, si propagò per tutto il carnaro, portato su tutti i venti, ,verso ogni lato del mondo, fino alle più lontane terre, ovunque gli uomini combattano e lottino per affrancarsi da un giogo, per difendersi da un tiranno, per affermare la bellezza di un diritto eterno” (pag. 230).
- “La cerimonia si svolse fra l’entusiasmo di tutta la Città. I reparti dell’Esercito Liberatore provenienti dalla strada della Santa Entrata, sfilarono per la città nella stessa formazione dell’anno prima. Nella Piazza Dante venne issato per la prima volta in cima all’antenna eretta al modo veneto il grande gonfalone purpureo della Reggenza ornato dai colori fiumani e italiani. E ai suoi Legionari e a tutto il popolo fiumano il Comandante , saldamente piantato sul sul suo cavallo, pronunciò con voce possente il [suo] discorso [Il Gonfalone]” (pp. 256-257).
Secondo il rapporto del comandante Francesco Napoli, le scariche e le ingiurie si rinnovarono nel mattino del 31 ottobre scorso , contro il piroscafo Issoria che aveva issato la bandiera nazionale. Poiché il Governo d’Italia non ha il potere d’imporre ai trasgressori il rispetto delle leggi né di vendicare quel medesimo tricolore [..], spettano al Comando di Fiume l’uno e l’altro compito. Per ciò lo scoglio di San Marco, termine veneto della Reggenza, fu occupato con le armi nella notte fra il 3 e il 4 novembre.[…] Da oggi in poi la bandiera d’Italia sarà rispettata in tutto il Carnaro. Il presidio di san Marco guarentirà il passaggio a tutti i naviganti, proteggendoli contro ogni attentato barbarico” (Gabriele D’Annunzio, volantino riprodotto a pag. 266).
"Improvvisamente, la mattina del 24 agosto, noi ufficiali fummo riuniti a rapporto. Ci venne letto dal Maggiore Reina l'ordine di partenza. Segreto, segretissimo. Dovevamo partire a mezzanotte dello stesso giorno. Francamente, più astuti di così i membri della commissione d'inchiesta non avrebbero potuto essere. Essi volevano sorprendere i fiumani nel sonno. E volevano che quelle stesse truppe entrate a Fiume alla luce del sole e accolte trionfalmente, rifacessero la via del ritorno protette dalle tenebre, per evitare altre complicazioni internazionali. Ma l'ordine non poteva essere da noi digerito con troppa facilità. Eravamo militari, è vero; ma costringerci ad un gesto di così palese umiliazione era inumano e assurdo. [...] Alla mensa quel giorno tutti, più o meno calorosamente, protestammo in nome di un diritto umano, contro un'imposizione bestiale. Ma l'ordine c'era, e il tempo che ci separava dall'esecuzione era breve, brevissimo. Nel pomeriggio noi più ribelli ci riunimmo nella mia camera, a Sussak. C'erano il capitano Sovera, il tenente Rusconi, i sottotenenti Grandjacquet, Cianchetti, Ciatti, Brichetti, Adami ed io. [...] Vediamo se è possibile smuovere i capi popolari, e convincerli che la partenza dei granatieri sarebbe un ottimo pretesto per rinnovare in maggiori e più decisive proporzioni la volontà dei fiumani di essere annessi all'Italia. [...] Avemmo l'impressione, in un certo momento, di trovarci di fronte a tanti rammolliti. Così giudicammo più pratico e più fattivo agire per nostro conto" (pp. 21-23).
"Noi eravamo intontiti. Mi sentii tirare da tutte le parti, strappare le stellette, afferrare per il lembo della giubba, sferzare da rami di lauro e stringere da cento, da mille mani, e mi venne una gran voglia di piangere" (pag. 30).
"Ah! Un'idea: bisogna chiedere a un ferroviere a che ora passa da Mattuglie il primo treno diretto a Fiume. - Alle sette in punto, - risponde l'interpellato. Mancano cinque minuti. - Ragazzi, bisogna mandare un saluto a Fiume, col primo treno. - E via tutti, di corsa, in cerca di gesso. Assaltiamo un'osteria nei pressi della stazione. Alcuni pigliano di petto il capo stazione, e il gesso è bell'è trovato. O meglio, requisito, per alte ragioni d'interesse nazionale. Eccoci tutti pronti, coll'asticciuola bianca fra le dita, in attesa del convoglio. Arriva poco dopo. Secondo assalto. Questa volta ai carrozzoni, che per l'occasione si trasformano in larghe e lunghe lavagne viaggianti. In un batter d'occhio tutti gli spazi disponibili vengono ricoperti di scritte bianche: "Fiume o morte!"; "Fiumani, i granatieri vi hanno nel cuore"; "Non vi abbandoneranno"; "Torneranno, non ne dubitate"; e diecine e diecine di indirizzi di questo genere. Due carabinieri mettono fuori la lucerna dal finestrino e ci guardano stupiti. Non capiscono nulla di tutto questo fervore grafico..." (pag. 35).
"Ci presentiamo: - Frassetto. - Sanguineti. - Simoni. - Keller. C'è in tutti sul principio un senso di mistero, che circonda ogni frase ed ogni gesto [...] ma l'aria dolce e il sole tiepido e un profumo sottile di salmastro e di rose e una complice quiete che abbraccia tutto e tutti, fa sì che in poco tempo ci sentiamo amici. E' forse un non confessato sentimento d'amore, che da giorni e giorni ci spinge verso un orizzonte di luce, di cui non ancora abbiamo potuto intravedere i contorni. E' forse un desiderio immenso di donare, di donare senza limiti, senza restrizioni, senza compensi. E' una mania strana, inusitata prepotente, che ci ha preso tutti, sconosciuti ed amici, in un contagio che non si può isolare, in uno straripamento che non si può arginare. Mi sento amico di questi tre sconosciuti, che mi hanno guardato per la prima volta come si guarda un fratello. [...] All'una e mezzo Gabriele d'Annunzio, in tenuta di tenente colonnello dei lancieri di Novara, scende dalla sua camera. Ha sul petto soltanto i segni delle ricompense al valore e la placca di mutilato" (pp. 68-69).
- “La mattina alle ore 11 dell’8 ottobre, Mussolini giungeva in Fiume dalle vie dell’aria. Egli proveniva dal campo d’aviazione di Novi Ligure a bordo di uno Sva rapidissimo pilotato dal ten. Carlo Lombardi della 74a Squadriglia da caccia. Egli venne subito ricevuto dal comandante col quale conferì lungamente in merito alla situazione di Fiume e dell’Italia. Ripartì l’indomani festeggiato dal Comandante e dai legionarii, con lo stesso velivolo che per un guasto avvenuto dovette atterrare nel campo di Ajello, da dove Mussolini proseguì per Firenze, in tenuta di volo, per assistere in tempo alla apertura del primo congresso nazionale dei Fasci Italiani di Combattimento” (pag. 138).
"La spedizione di Zara era stata decisa in un Consiglio di guerra tenutosi il giorno undici novembre e al quale avevano preso parte, oltre al Comandante, i generali Ceccherini e Tamaio, il colonnello Rossi, comandante l'artiglieria, il colonnello Giuriati e qualche altro. Nel massimo segreto furono fatti tutti i preparativi; il funzionamento del telegrafo e del telefono venne completamente sospeso. La partenza avvenne nella notte del 14 novembre. Sul cacciatorpediniere «Francesco Nullo» erano saliti col Comandante, Luigi Rizzo, il capitano Host-Venturi, il tenente di vascello Ceccherini, il maggiore Reina, il capitano Coselschi e il tenente aviatore Keller. Nelle altre navi - la Cortellazzo, la torpediniera 66 P.N. e un Mas - si imbarcarono reparti di marinai e soldati al comando dei loro ufficiali. Alle ore 16 del giorno 15 la spedizione era già di ritorno e tutta Fiume ormai consapevole dell'avvenimento trovavasi a ricevere il Comandante. La narrazione dei particolari dello sbarco di Zara venne fatta dallo stesso comandante dalla ringhiera del palazzo dove il popolo era accorso in folla ansioso di sapere i risultati di quella spedizione" (pp. 142-143).
“La partenza del primo scaglione diretto in Italia era fissata per il giorno 21. Poche ore prima si svolse al Teatro Fenice la solenne consegna della bandiera nazionale offerta dalle donne milanesi al Comando di Città. […] Il Comandante, preso da commozione per lo spettacolo di tutti quei bimbi partenti, esordì dicendo che «come nell’antico tempo, quando imperversava la lebbra, tutti credevano che nessuna medicina fosse efficace a guarirla, fuorché il sangue dei bambini, così i bimbi fiumani sono invitati in Italia a guarirla dalla lebbra della sfiducia e della miseria morale in cui è caduta». […] Alla stazione ferroviaria era frattanto convenuta tutta la popolazione. Rano uomini e donne di tutte le età che piangevano di commozione per quello spettacolo nuovo ai loro occhi. Tutti recavano fiori ai piccoli innocenti che lasciavano le loro famiglie per l’ospitalità di una città generosa. Le mamme erano strette ai loro bnimbi partenti e il dolore del distacco trovava conforto solo in quella indimenticabile manifestazione di amore intorno alle loro creature. […] La visione di quella Crociata di innocenti toccava profondamente il cuore del popolo di Fiume” (Riccardo Frassetto, «I disertori di Ronchi», Milano, Casa Editrice Carnaro, 1926: pp. 155-157).
“Il capitano Vadalà aveva ordinato ai suoi carabinieri (oltre 200 uomini) di tenersi pronti per abbandonare la città. Con essi avrebbe dovuto partire un certo numero di fanti della Brigata Firenze. Questo fatto di palese rivolta indignò grandemente il Comandante il quale alle ore 16 dello stesso giorno dava ordine che i RR. CC. Partissero subito non potendosi tollerare in città la presenza di truppe ribelli armate. Nel contempo impartiva ordini ad alcuni comandanti di reparto di sorvegliare l’uscita per evitare incidenti di qualsiasi sorta. Questo perché gli Arditi, eccitatissimi, minacciavano di esemplare punizione i traditori. Tutto ciò fu evitato solo in parte. Infatti , in prossimità della sbarra di Cantrida, essendo rimasto colpito alla testa un ufficiale dei granatieri che aveva tolto ai carabinieri il gagliardetto donato loro in passato dalle donne fiumane, il conflitto scoppiò improvviso. Malgrado la presenza dei loro ufficiali, gli arditi costrinsero alla fuga i traditori a sputi e bombe a mano. Si ebbero a deplorare tre morti: due carabinieri e un borghese e diversi feriti da entrambe le parti” (pag. 178).
“Quando a Fiume giunse la notizia degli arresti fatti operare da Nitti dei fiumani e dei dalmati residenti a Roma, la città ebbe tutto un sussulto di ribellione e di sdegno. Gli arresti erano stati eseguiti nel cuore della notte del 25 maggio e fra essi vi erano quelli dei delegati del Consiglio Nazionale di Fiume: il venerando Grossich, presidente, e i signori Rudan e Nascimbeni. Tutta la città era in piedi la sera del 26. Dalla ringhiera del palazzo parlò a quella folla immensa il Comandante, con accenti di invincibile nausea per quanto avveniva in Italia. […] Dopo il vivacissimo discorso del Comandante la folla si riversò in colonna per le vie della città continuando a imprecare contro il governo di Roma. Giunta poi al ponte di Sussak travolse la barra invadendo la borgata croata facendo un grande falò di tutti gli sbarramenti cagoiani sotto gli occhi benevoli della truppa regolare” (pp. 180-181).
- “Poiché il disorientamento degli animi durava ancora, e l’incertezza anzi gravava più cupa dopo le dimissioni del Consiglio Nazionale lo slancio del popolo verso il Comandante fu tanto impetuoso e spontaneo, anche per attestare, nella svolta repentina degli avvenimenti, alla vigilia dell’anniversario di Ronchi, che «la fede e la forza del popolo libero» erano tuttora con lui. […] L’immensa folla era composta di cittadini rappresentanti di tute le classi sociali; i legionari, consegnati nelle caserme sin dalla mattinata, mancavano del tutto. Si può dire che la città intera fosse raccolta nella storica piazza, innanzi alla bandiera di Randaccio […] distesa sulla storica ringhiera fra festoni di lauro, armonicamente disposti. C’era nell’aria il tremito della vita nuova. Alle 19 il Comandante s’affacciò un momento alla finestra della sua stanza da lavoro: subito la folla lo scorse e lo invocò alla ringhiera con un lungo, insistente applauso cambiatosi in una frenetica acclamazione non appena il Liberatore apparve sulla terrazza seguito dal generale Ceccherini, dall’on. De Ambris, dal colonnello Sani, da un numeroso stuolo di ufficiali. Squillarono le trombe, le voci della moltitudine acclamante si placarono, il silenzio si fece profondo e solenne. Gabriele d’Annunzio cominciò il suo discorso con voce da prima velata per la commozione intensa del suo cuore, poi gli accenti si fecero sempre più chiari e vibranti. Una stretta calda continua corrispondenza era fra il Capo e il suo popolo; la folla comprendeva con rapida percezione i suoi sentimenti, i suoi propositi, rispondeva pronta e sicura alle sue domande, faceva conoscere, alta e precisa, la propria volontà” (pp. 222-224).
Dopo il suo discorso D’Annunzio pronunciò il solenne giuramento con cui veniva proclamata la Reggenza Italiana del Carnaro. Al termine della proclamazione “l’immensa folla proruppe in un formidabile grido, in una delirante acclamazione. Squillarono le trombe, il fragore del popolo plaudente salì al cielo limpido, si propagò per tutto il carnaro, portato su tutti i venti, ,verso ogni lato del mondo, fino alle più lontane terre, ovunque gli uomini combattano e lottino per affrancarsi da un giogo, per difendersi da un tiranno, per affermare la bellezza di un diritto eterno” (pag. 230).
- “La cerimonia si svolse fra l’entusiasmo di tutta la Città. I reparti dell’Esercito Liberatore provenienti dalla strada della Santa Entrata, sfilarono per la città nella stessa formazione dell’anno prima. Nella Piazza Dante venne issato per la prima volta in cima all’antenna eretta al modo veneto il grande gonfalone purpureo della Reggenza ornato dai colori fiumani e italiani. E ai suoi Legionari e a tutto il popolo fiumano il Comandante , saldamente piantato sul sul suo cavallo, pronunciò con voce possente il [suo] discorso [Il Gonfalone]” (pp. 256-257).
Secondo il rapporto del comandante Francesco Napoli, le scariche e le ingiurie si rinnovarono nel mattino del 31 ottobre scorso , contro il piroscafo Issoria che aveva issato la bandiera nazionale. Poiché il Governo d’Italia non ha il potere d’imporre ai trasgressori il rispetto delle leggi né di vendicare quel medesimo tricolore [..], spettano al Comando di Fiume l’uno e l’altro compito. Per ciò lo scoglio di San Marco, termine veneto della Reggenza, fu occupato con le armi nella notte fra il 3 e il 4 novembre.[…] Da oggi in poi la bandiera d’Italia sarà rispettata in tutto il Carnaro. Il presidio di san Marco guarentirà il passaggio a tutti i naviganti, proteggendoli contro ogni attentato barbarico” (Gabriele D’Annunzio, volantino riprodotto a pag. 266).