ADORNO Theodor
(Theodor Wiesengrund, Francoforte 1903 - 1969)
Minima moralia. Introduzione di Renato Solmi
Luogo: Torino
Editore: Giulio Einaudi Editore, "Saggi - 183"
Stampatore: Francesco Toso - Torino
Anno: 1954 (20 novembre)
Legatura: brossura
Dimensioni: 21,6x16 cm.
Pagine: pp. LXI (1) - 236 (12)
Descrizione: copertina con titoli in nero su fondino bianco e fondo rosso. Esemplare in ottime condizioni di conservazione. Prima edizione italiana.
Bibliografia: Mondadori 1959: vol. I pag. 28
Prezzo: € 120ORDINA / ORDER
Opera pubblicata per la prima volta con titolo: «Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben» (Berlin und Frankfurt A.M., Suhrkamp Verlag, 1951).
"In questa raccolta di aforismi, redatti dall'esilio americano tra il 1944 e il 1947, Adorno sottopone ad analisi critica l'ambito della condotta nella vita privata e dei rapporti umani in un mondo che - caratterizzato dalla divisione del lavoro e dal dominio sulla natura - si pone a suo avviso sotto il segno dell'alienazione e della reificazione. (...) Adorno rintraccia nelle situazioni e nei fenomeni più diversi della cultura e della vita quotidiana i segni della nascita di un «nuovo tipo umano» e denuncia la «freddezza borghese» e «l'atrofia di tutto ciò che è umano» nel passaggio dal capitalismo concorrenziale al capitalismo monopolistico. Quest'ultimo elimina, secondo Adorno, gli spazi di libertà individuale e, mentre esalta ideologicamente l'individuo, tende a sottometterlo a un dominio totalizzante. Anche nella fine delle formalità e nella apparentemente democratica caduta delle distanze fra gli individui si annunciano, per Adorno, «la pura brutalità» e la prassi «di trattare gli uomini come cose»" (Massimo Mezzanzanica, in: Franco Volpi, «Dizionario delle opere filosofiche», Milano, Bruno Mondadori, 2000: vol. I pag. 5).
“Goethe, che si rendeva chiaramente conto dell’incombente impossibilità dei rapporti umani nella società industriale nascente, ha cercato, nelle novelle degli «Anni di viaggio», di rappresentare il tatto come la sola possibilità di salvezza tra gli uomini estraniati. Questa soluzione fa tutt’uno, per Goethe, con la rinuncia: con la rinuncia alla vicinanza piena, alla passione e alla felicità intera. L’umano consiste, per lui, in un’autolimitazione, che fa proprio in anticipo - per esorcizzarlo - il corso inevitabile della storia: l’inumanità del progresso, l’atrofizzazione del soggetto. Ma ciò che è accaduto in seguito fa apparire la stessa rinuncia goethiana come un compimento. Tatto e umanità - che sono in lui solo una cosa - hanno percorso nel frattempo la via da cui, nell’opinione o nella speranza di Goethe, avrebbero dovuto tenerci lontani. [...] Il presupposto del tatto è la convenzione in sé compromessa ma ancora presente. Oggi la convenzione è irrimediabilmente crollata, e continua a vivere solo nella parodia delle forme, in un’etichetta arbitrariamente escogitata o ripescata ad uso degli ignoranti, [...] mentre l’intesa che era alla base di quelle convenzioni nella loro stagione umana si è trasformata nella cieca conformità dei radioascoltatori e possessori d’automobile. [...] Tatto non era la pura e semplice sottomissione alla convenzione cerimoniale [...]. La funzione del tatto è stata altrettanto paradossale del suo momento storico, implicando la conciliazione - a rigor di termini impossibile - tra l’istanza non riconosciuta della convenzione e l’istanza ribelle dell’individuo. [...] Ma quando il tatto, ormai emancipato, si contrappone all’individuo come ad un assoluto, senza un universale da cui differire, manca l’individuo e finisce per fargli torto. [...] Gli individui cominciano - e non senza ragione - a reagire con ostilità al tatto: un certo tipo di cortesia, anziché dar loro il senso di essere trattati come uomini, desta in loro il sospetto dello stato inumano in cui si trovano, e la persona cortese corre il rischio di passare per scortese, perché fa uso della cortesia come di un privilegio superato. [...] L’abolizione delle convenzioni come di un orpello inutile, antiquato ed esteriore, consacra la realtà più esteriore di tutte, una vita di dominio immediato. E che il venir meno anche di questa caricatura del tatto nel cameratismo a base di spintoni renda ancora più insopportabile l’esistenza, non è che un altro segno della crescente impossibilità della convivenza umana nelle attuali circostanze” (pp. 24-27).
"In questa raccolta di aforismi, redatti dall'esilio americano tra il 1944 e il 1947, Adorno sottopone ad analisi critica l'ambito della condotta nella vita privata e dei rapporti umani in un mondo che - caratterizzato dalla divisione del lavoro e dal dominio sulla natura - si pone a suo avviso sotto il segno dell'alienazione e della reificazione. (...) Adorno rintraccia nelle situazioni e nei fenomeni più diversi della cultura e della vita quotidiana i segni della nascita di un «nuovo tipo umano» e denuncia la «freddezza borghese» e «l'atrofia di tutto ciò che è umano» nel passaggio dal capitalismo concorrenziale al capitalismo monopolistico. Quest'ultimo elimina, secondo Adorno, gli spazi di libertà individuale e, mentre esalta ideologicamente l'individuo, tende a sottometterlo a un dominio totalizzante. Anche nella fine delle formalità e nella apparentemente democratica caduta delle distanze fra gli individui si annunciano, per Adorno, «la pura brutalità» e la prassi «di trattare gli uomini come cose»" (Massimo Mezzanzanica, in: Franco Volpi, «Dizionario delle opere filosofiche», Milano, Bruno Mondadori, 2000: vol. I pag. 5).
“Goethe, che si rendeva chiaramente conto dell’incombente impossibilità dei rapporti umani nella società industriale nascente, ha cercato, nelle novelle degli «Anni di viaggio», di rappresentare il tatto come la sola possibilità di salvezza tra gli uomini estraniati. Questa soluzione fa tutt’uno, per Goethe, con la rinuncia: con la rinuncia alla vicinanza piena, alla passione e alla felicità intera. L’umano consiste, per lui, in un’autolimitazione, che fa proprio in anticipo - per esorcizzarlo - il corso inevitabile della storia: l’inumanità del progresso, l’atrofizzazione del soggetto. Ma ciò che è accaduto in seguito fa apparire la stessa rinuncia goethiana come un compimento. Tatto e umanità - che sono in lui solo una cosa - hanno percorso nel frattempo la via da cui, nell’opinione o nella speranza di Goethe, avrebbero dovuto tenerci lontani. [...] Il presupposto del tatto è la convenzione in sé compromessa ma ancora presente. Oggi la convenzione è irrimediabilmente crollata, e continua a vivere solo nella parodia delle forme, in un’etichetta arbitrariamente escogitata o ripescata ad uso degli ignoranti, [...] mentre l’intesa che era alla base di quelle convenzioni nella loro stagione umana si è trasformata nella cieca conformità dei radioascoltatori e possessori d’automobile. [...] Tatto non era la pura e semplice sottomissione alla convenzione cerimoniale [...]. La funzione del tatto è stata altrettanto paradossale del suo momento storico, implicando la conciliazione - a rigor di termini impossibile - tra l’istanza non riconosciuta della convenzione e l’istanza ribelle dell’individuo. [...] Ma quando il tatto, ormai emancipato, si contrappone all’individuo come ad un assoluto, senza un universale da cui differire, manca l’individuo e finisce per fargli torto. [...] Gli individui cominciano - e non senza ragione - a reagire con ostilità al tatto: un certo tipo di cortesia, anziché dar loro il senso di essere trattati come uomini, desta in loro il sospetto dello stato inumano in cui si trovano, e la persona cortese corre il rischio di passare per scortese, perché fa uso della cortesia come di un privilegio superato. [...] L’abolizione delle convenzioni come di un orpello inutile, antiquato ed esteriore, consacra la realtà più esteriore di tutte, una vita di dominio immediato. E che il venir meno anche di questa caricatura del tatto nel cameratismo a base di spintoni renda ancora più insopportabile l’esistenza, non è che un altro segno della crescente impossibilità della convivenza umana nelle attuali circostanze” (pp. 24-27).