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STEFANO DI MICHELE
LA FOTOGRAFIA AL POTERE. LE RIVOLUZIONI INCOMPIUTE DI TANO D'AMICO

Poi Tano prende e va alla guerra - e torna con occhi e mani e facce e qualcuno che magari si bacia, sorrisi a volte, e a volte, magari più volte, rabbie. Perché poi ne ha viste di guerre, Tano D'Amico. E ne ha sentite, di voci. E scontri e disordini di vite e vite disgregate, e infine sangue, nero d'asfalto e nero mentre corre tra i sanpietrini delle piazze - sangue nero, bianco il viso di chi lo perde.

TANO D'AMICO
Ecco, il bianco e il nero, sempre il bianco e il nero, con il dono di un grigio che si addolcisce, negli scatti di questo grandissimo fotografo. Gli occhi di Tano e la sua amata Leica hanno visto forse cento vite, e chissà se cento vite bastano. Il meglio e il peggio - tutto quello che può dare la gente quando scende in piazza. Hanno visto tanto, gli occhi di Tano - della nostra vita che è andata negli ultimi quatttro decenni - che sembrano essere stati sempre lì. E così, una decina di anni fa, proprio un dirigente della Digos, dopo che alcuni poliziotti si erano presentati in casa del fotografo praticamente all'alba, "e cosa volssero non l'ho mai saputo", annotò quando gli chiesero cosa volessero: "Perché capita qualcosa e da trent'anni lui c'è". Tano sorride. E ripete ancora adesso quello che allora rispose al funzionario di polizia: "Vorrei esserci ancora. Ma mi è sempre sfuggito l'essenziale...". E' nei dettagli che, fin dagli anni Sessanta, Tano insegue questo essenziale: nella risata di un operaio, nelle braccia alzate di una sfrattata, nell'abbraccio di due studenti, nello sguardo curioso di un carabiniere, in un bambino stupito in mezzo alla strada. Sulle labbra, nelle mani, nella curva delle ciglia. Dice Tano che per fortuna è stato molto amato, e questo gli ha permesso di vivere, persino di non morire. Come quando gli anni Settanta finirono e un intero universo di rapporti e di affetti e di speranze si inabissò, scomparve. Succede quando cambiano gli orizzonti - e a volte mutano in meglio, quando è il meglio che li muta, e a volte in peggio, quando credi di affogare.
"Ci sono tanti che sono morti per un tumore alla testa, di morte precoce per infelicità, che poi si chiama crepacuore, morti per droga, un mio amico fotografo si è ucciso con il gas... Questo togliersi dalla vita in un modo oscuro, così oscuro che lo approvano tutti...". Le sue foto, il suo intero universo - così tanta parte del nostro universo, dell'immaginario dei nostri anni - sono sparse sul tavolo. Tano le accarezza con lo sguardo - figure scovate, spesso amate, sempre difese. "Sono conteno di come ho svolto il mio lavoro, perché nessuno per questo mio lavoro è andato in carcere. Ho sempre raccontato la realtà senza generare altre sofferenze". Eccola, la storia di Tano.

"Sono nato nel 1942, nell'isola di Filicudi. Ora Filicudi è lo scheletro dell'isola che amavo, ci sono attori e produttori e artisti di successo. E non ci abitano più, e non esistono più nemmeno le bestie. Quando ero bambino si sentivano i versi delle bestie - il muggito, l'asino che ragliava, l'abbaiare di un cane. Ora non si sentono più, e neanche si vedono, gli animali...".
Accadevano cose che sembravano miracoli, in quell'isola persa dentro l'Europa che bruciava nella guerra. "I bambini, soltanto i bambini, venivano incantati dai delfini. Questi delfini arrivavavno fin sopra le pietre, sulla riva del mare. E delfini e bambini si guardavano negli occhi. C'era mia nonna che mi sgridava sempre: ancora con questi delfini!". La nonna amava molto il piccolo Tanino, che fino a un anno aveva vissuto con i genitori a Messina. "C'era la guerra, ero molto fragile, avevo sempre la tosse convulsa, mio papà era stato fermato mentre cercava un po' di latte d'asina per me al mercato nero". E con una sorta di blitz notturno, su una barca condotta da un marinaio della Mas della Prima guerra mondiale, "era stato ferito e decorato, camminava con due bastoni, ma sulla sua barca era il re", la nonna partì da Filicudi, "intorno i bagliori della guerra, i sommergibili e gli aerei", e sbarcò a Messina per riportare il piccolo fragile nipote sulla sua più sicura isola. "Quando la chioccia covava le uova, la nonna ne prendeva uno, ci scriveva sopra 'Tanino' e mi diceva che quello era il mio pulcino. Io aspettavo settimane che l'uovo si schiudesse per vedere questo pulcino. Poi, appena usciva dal guscio si confondeva con gli altri appena nati e lo perdevo per sempre di vista. Per sei anni Tanino resta nell'isola di Filicudi - quasi come Procida, quasi come l'incantata isola di Arturo - insieme alla nonna, guardando delfini e aspettando pulcini, dentro un unico incancellabile paesaggio.
Poi, a sette anni, con i genitori a Milano. Milano invece era un paesaggio di rovine. "C'erano tutti muri diroccati, e su quei muri venivano affisse copie dell'Unità... Con dei carretti, tirati da cavalli, ogni giorno rimuovevano un po' di quelle rovine... Lì, forse, ho cominciato a riflettere, a osservare il senso delle cose...". L'Unità incollata sui muri pericolanti, gli uomini affamati, i cavalli piegati sotto il peso delle rovine delle follie umane. "Solo anni dopo seppi che a Melissa, negli stessi giorni, la polizia aveva represso un'occupazione di terre ed erano morti tre contadini. Ma allora, anche se ero bambino, mi colpì una frase su quei fogli di giornale, "uccisi tutti i cavalli e tutti i muli", era questa la frase. Andai a Melissa venticinque anni dopo, per un servizio fotografico, portandomi dietro quei ricordi...".
L'allievo Gaetano D'Amico, poi Tano, detto Tanino, comincia a farsi un nome, in famiglia e tra gli amici, come "quello che sa fare le foto", e in ogni occasione a Tano chiedevano di farle, "intuivo un altro linguaggio, ma credo di non aver mai pensato, allora, di vivere con le mie immagini". Si iscrive all'Università Cattolica, lo studente D'Amico, facoltà di Scienze politiche, "anche se alla laurea non sono mai arrivato, non chiamarmi dottore". Tra i suoi docenti, il professor Gianfranco Miglio, che alcuni decenni dopo diventerà l'ideologo massimo della Lega agli esordi. "E non è vero che odiava il Sud. Lui voleva che noi pensassimo che lo Stato era cattivo, cosa che in effetti è. Il potere non può che essere cattivo. Alla prima lezione Miglio ci spiegò che cosa ci avrebbe insegnato, e cioè che il potere finisce nelle mani di un certo tipo d'uomo, che se lo prende e poi racconta favole per spiegare perché se l'è preso.
'Quelle favole sono la mia materia' ci diceva Miglio". Ma siccome sempre Università Cattolica era, il giovane Tano un po' si scontra e un po' si sorprende. "Ricordo come si parlava dell'omosessualità e della prima notte di nozze nelle lezioni di Morale cattolica. Mi sembrava pornografia, facevano apparire la vita delle persone in una dimensione sordida... Cominciai a non frequentare, mi sentivo già un Giordano Bruno... Mi chiamò il professore, Monsignor Aceti. Gli spiegai cosa pensavo. Mi disse: 'Non venga al prossimo esame di Morale cattolica, venga da me, intanto legga questi libri'. Erano di teologia dogmatica, bellissimi. E monsignor Aceti di volta in volta mi dava una nuova lista di libri...".
La stessa saggezza del monsignore non la trovò in caserma, il fante D'Amico, quando finì a Trapani, "eravamo la feccia della feccia della feccia, tutti insieme giovani delinquenziali, deviati e devianti", un reparto di teste calde, quelli che non sapevano né leggere né scrivere, persino un condannato per un delitto. "Nessuno gli ha mai detto assassino, ma un giorno uno disse a un altro ladro e quello si mise a piangere... Lì ho rivalutato molto gli oppressi. Torna dopo quindici mesi a Milano, a casa, Tano. E la sua vita sta per cambiare pr sempre. "Con i miei amici non mi trovavo più.

Ma il colpo di grazia me lo diede la mia fidanzata di allora, la più bella che abbia mai avuto. In un angolo buio della casa mi disse: ti lascio. Io: perché? E lei: perché mi opprimi troppo. Mi scappava da ridere: come ti opprimo se manco da quindici mesi? Lasciai perdere, non si può rivendicare un amore che non c'è. Quella sera dissi che sarei partito. Per dove? chiesero. A Roma, risposi. Ma senza convinzione". Era il '67, l'anno prima del '68. Prima ancora era riuscito a farsi acchiappae dalla polizia, quando con altri bloccò i gipponi della celere per protestare contro la guerra in Vietnam. "Quelli, invece di schiacciarci, ci fermarono tutti. Il compagno Egisto - compagno di scuola grande e grosso, poi compagno di militanza ma sul regolare versante Pci - si mise l'abito buono e la cravatta per andare ad avvisare la mamma di Tano che il figlio era stato arrestato. Il compagno Egisto voleva bene al compagno Tano.
"A un certo punto si parlò anche di un film su Gramsci. E io, con il mio aspetto fragile e la massa di capelli, avrei dovuto interpretare Gramsci...". Nella capitale Tano fa "lavoro di codifica per uffici": riempiva a mano moduli comunitari per il rimborso degli ulivi e cose del genere. "Un lavoro avilente". Fa pure l'amministratore di un piccolo teatro dove recitò Carmelo Bene. Serate con jazzisti che mischiavano musica e immagini, "e anche loro: a te la foto vengono bene". Le piazze cominciano a riempirsi. Assemblee. Proteste. Nel girare e vagare e riposizionarsi, Tano arrivò alla rivista di Potere operaio. Quelli volevano le foto, lui voleva fare la rivoluzione. "Se tu vuoi stare in mezzo a noi devi fare le foto, sennò rimani solo. Le foto devi fare ripetevano sempre. Ma io volevo fare il compagno di movimento, volevo vivere". Fece il fotografo, facendo il compagno. "Mi dissero: o vai al nord o vai in Sardegna, dove c'era il petrolchimico, gli operai in lotta. Scelsi la Sardegna, avevo fatto il militare con dei sardi e conoscevo la loro indole scontrosa. Così mi mandano a fare in culo e ho la scusa per tornare a casa...". Invece lo accolsero con bbracci e baci, e Tano restò per immortalare pastori e contadini che si mutavano in operai. "Cambiavano le loro vesti, i loro gesti, le linee sul volto, le espressioni dei loro occhi... Io fotografavo questi cambiamenti...". Lì fece una delle sue prime foto destinate a rimanere: un gruppo di operai che aspettano l'autobus, tutti disposti sulla stessa linea. Una foto stretta e lunga. "Inventai un taglio nuovo".
Fu l'inizio di una serie infinita, di folle infinite, di facce a migliaia. "Ogni epoca ha le sue folle, ogni epoca ha il suo modo di comporsi insieme agli altri. Come se attingesse a delle forme sfuggenti, ma in modo diverso". Tano fu quasi fotografo per forza, all'inizio. "Non ho mai avuto la passione per la fotografia, mi sembra qualcosa di maniacale. Come chi ha la passione per la calligrafia", ha raccontato un giorno. Lui e la sua Leica, perennemente insieme, e con la voglia di essere altrove, dentro e non di lato. Ma intanto è lì e scatta e scatta e scatta. "La bellezza umana nel disagio sociale", la definisce. Spiega: "Immagini nuove del conflitto, dagli strappi con la storia". Cerca nelle inquadrature quello che rischia di andare perso, di essere dimenticato, di farsi iraccontabile. "Come per le parole e i pensieri, le belle immagini sono poche". E cos'è che rende bella una foto? "Rimarrai un po' deluso, ma per me una bella foto è semplicemente quella che ti fa fare un pensiero, che ti fa provare un'emozione, che ti fa ricordare qualcosa che senza quella foto avresti dimenticato". E racconta ancora, Tano: "Ciò che non volevo era la foto da Unità... Nella foto classica da Unità, ripresa dall'alto di una gru, se in piazza c'erano centomila persone si dovevano vedere centomila puntini. Ma a me non interessavano i centomila puntini, mi interessavano Claudio e Giovanna che si fidanzano, Giuseppe e Paolo che s'incontrano...".
Tano invece sta per incontrare gli anni Settanta e Lotta Continua: il periodo più bello, racconta e si emoziona, della sua vita. "Perché sai, la mia vita è stata bella".
Ha nel tono della voce e nello sguardo la gratitudine verso quegli anni, quei volti, quelle speranze che caparbiamente ancora oggi Tano si rifiuta di mutare in illusioni. "Sono stati i dieci anni più belli della mia vita. Sarei diventato pazzo se non avessi avuto un ambiente intorno che mi amava proprio per la mia diversità. Ero troppo amato allora per affossarmi, e perciò dovevo difendere anche il mio modo folle di fare immagini...". Ricorda voci e visi e chiacchiere a migliaia. E ogni volta che racconta di qualcuno che gli diceva di come fossero belle le sue foto. Tano chiede di non scriverlo, che chissà cosa poi possono pensare, e non sta bene vantarsi - dunque sottrae, toglie, sfuma.
E se bisogna farlo, non è il suo orgoglio di fotografo che la spunta, ma il ricordo di una stagione vissuta come stagione di bene e di emozioni. Si resta innamorati di certi periodi della nostra esistenza. "Avevo un grande ammiratore in Adriano Sofri. Diceva che perdevo giornate intere lavorando sulle mani di una signora che si scalda a un falò, e poi diceva con finto rammarico che diventavo sempre più bravo". Anche: "Ho avuto come sponsor Oreste Scalzone, diceva che nelle mie foto di manifestazioni c'era una grandissima speranza, e nelle altre invece un pessimismo di fondo, da toccarsi le palle... Oppure: "Enrico Deaglio diceva: abbiamo la fortuna di avere Tano, c'erano centinaia di migliaia di persone in piazza e lui torna con le foto di cinque occhi e tre mani...". La racconta così la sua folla, che per mille e mille volte ha fissato attraverso l'obiettivo:

"La mia folla fa vedere che tutti hanno le stesse domande, che tutti si affacciano su una piazza o su una strada come se per la prima volta comparissero su quella piazza o su quella strada. E se tutti hanno la stessa domanda, ognuno è cosciente che se non l'avesse fatto lui, quel pezzo di strada che sta facendo, non l'avrebbe fatto nessuno... Ognuno era diverso e insostituibile, ognuno come me era amato per la sua diversità...".
Gli anni felici e duri che Tano vive e consegna alla memoria con le sue immagini. Come quella del poliziotto i n borghese, con la borsa di tolfa a tracolla e la pistola in mano, il giorno in cui fu uccisa Giorgiana Masi, il 12 maggio 1977 - e quella lapide e quei versi sempre lì, "se la rivoluzione d'ottobre / fosse stata di maggio...". Una delle foto simbolo degli anni Settanta. "Quel poliziotto non ha ucciso Giorgiana, ma lo stesso per me quella foto resta l'immagine di uno stato che tende agguati ai propri cittadini", dice Tano. "Mi sono imbattuto in quellqa scena per caso... Lui mi vide che facevo la foto, lo disse al suo superiore... Neanche la volevo stampare quella foto. Pensavo: un agente in borghese, acqua calda, come in certi bassorilievi egizi dove vengono mostrati i soldati in borghese del faraone, con le spade che escono dal perizoma... Ci fu un momento in cui lo stato ebbe bisogno di un sacrificio umano...".
Ecco, alcune delle sue foto più famose Tano neanche le voleva stampare. Come quella del poliziotto, appunto. O quell'altra, sempre del '77: una ragazza con il volto coperto da un fazzoletto, gli occhi sbarrati, tra due carabinieri girati di spalle. "Ho sempre paura delle immagini un po' mignottesche, accattivanti...". Per fortuna Tano va da molti anni da uno stampatore, Claudio Bassi, che ha l'occhio felice. "Alcune delle mie immagini più conosciute è stato lui a convincermi a stamparle. Io dicevo di no, allora lui mi chiedeva se poteva stamparne una copia per attaccarle nel suo laboratorio. E trovavano subito un compratore, la foto della ragazza tra i due carabinieri fini su due pagine dell'Almanacco Bompiani".
Sono stati anni così, gli anni Settanta di Tano (e un po' di tutto il resto d'Italia). "Con l'avveno delle giunte rosse, le mie foto non andavano più bene perché continuavo a fotografare il disagio delle città anche con i sindaci comunisti. Ricordo l'archivista dell'Unità che me le restituì piangendo: non possiamo comprarle, tu ci metti in crisi con le tue foto... Non ho mai dimenticato quelle lacrime...". Anni che andarono via, tra impegno e sogno. "E io cosa sono, politicamente? Nella Bibblia, per descrivere qualcosa di disgustoso, c'è scritto 'il sarcasmo del soddisfatto'. Io ho sempre amato le persone cui va stretto il mondo e che cercano anche con la postura, con i loro volti, con la loro bellezza, con i loro sorrisi, di farne intravedere uno diverso". Per tutta la vita, e anche adesso che ha i capelli bianchi e il passo certo non stanco, solo un po' più lento, Tano se ne va vagando per i bordi del mondo, là dove la crosta terrestre s'increspa, certe zone d'ombra e di paure e di speranze quasi come una canzone di De André, quella dove "il sole del buon Dio non dà i suoi raggi".
Molti ci sono stati e si sono ritirati, molti ci hanno lasciato cuore o pelle, molti hanno dimenticato. Tano, invece, sempre per quei luoghi si aggira - rivoluzionario, forse; romantico, pure. E così, quando racconta dei suoi accidentati, diciamo, rapporti con le forze dell'ordine, "ma nessun giudice mi ha mai chiamato", sorride con divertita consuetudine: "I reati commessi nel raggio di qualche centinaio di metri dal luogo dove mi trovavo per lavoro erano miei...". E una volta un maresciallo lo chiamò per una perizia. "Una foto, pensavo. Per degli esplosivi, disse lui. Minchia! Pensai io". All'aeroporto un poliziotto scattò di colpo mentre gli esaminava il passaporto e controllava i dati al terminale. "Mai avuto condanne penali, lo rassicuro. Quello mi guarda dubbioso: beh, allora si vede che lei è uno di quelli... e con il braccio fa il gesto dell'anguilla, capace di sfuggire...". Ma niente da poter rendere meno appassionante la vita, dice.
Sì certo, sui bordi del mondo tanto battuto e inseguito è stato ospite anche della moglie di Curcio e degli autonomi di Padova - ma ha praticato con stupore e curiosità, e una sorta di personale candore. Tano è uno che quando saluta dice "buona vita", e che ricorda ogni cosa, manifestanti e celerini, eterne parti di mille barricate, ma innanzitutto il delfino che fissava un bambino sulla spiaggia di Filicudi. E una certa soddisfazione ha nella voce quando racconta la sera in cui lo avvicinò un colonnello dei carabinieri, "mi bisbigliò all'orecchio un complimento, mi disse che gli piacevano molto le mie foto". Persino un fascista, con tricolore sventolante, lo fermò alla fermata del tram. "Scusi, Tano D'Amico?" Tano andò subito sulla difensiva democratica: "Sì...". Quello sorrise: "Vorrei dirle che mi piacciono le sue foto". Pure Pierluigi Concutelli, quando faceva il volontario in carcere, glielo disse: "mi ricordano mia madre, un mondo perduto".
Negli anni Ottanta, Tano perse il suo mondo degli anni Settanta. "Non ho mai avuto una vita ricca, non ho mai avuto moltissimi lavori". Racconta che 'amici pietosi' gli procurarono anche dei lavori da fare con il sindacato, e la sua noia di quelle ore, il leader in attesa dello scatto, il suo scatto annoiato. Un giorno trovò a casa un messaggio: l'avevano cercato dalla Cei. Lui non capisce. "Pensavo che la Cei fosse una cosa tipo Cooperativa edili italiani, che volessero le ennesime foto gratuite. Poi scoprii che erano i vescovi. Chiedevano delle immagini per illustrare il catechismo per i giovani. Io subito dissi di no. Che faccio, prendo un amico e lo travesto da Cristo? Una cosa pacchiana... Ma monsignor Betori, che adesso è arcivescovo di Firenze, mi disse: 'Guardi che lei il suo lavoro lo ha già fatto' e scelsero dieci mie grandi foto. Per illustrare l'incontro con Cristo presero dei pescatori che riparavano le reti davanti alla cattedrale di Trani; per la passione di Cristo scelsero un gruppo di imbianchini, intorno a un tavolo fatto con assi da muratore, tra piatti di plastica e la moka per il caffè, esausti dopo il lavoro. 'Per la copertina però abbiamo un'altra immagine', mi disse Betori. Un raccomandato?, chiesi io. Lui sorrise: 'piuttosto, un raccomanduccio...'. Era un quadro di Duccio da Boninsegna...".
Non sono passati come anni facili, comunque. "Ma penso lo stesso di essere stato molto fortunato, anche se mi tagliavano luce e gas, i giornali non volevano i miei lavori, venivo evitato e Prima comunicazione espresse un giudizio severo e forse ingiusto nei miei confronti, definendomi 'omertoso e bugiardo'. Ho cominciato allora una cariera da insegnante girovago. Venivo chiamato a insegnare a ore, per pochi soldi, da università, accademie e scuole di ogni tipo. Ma non mi sono mai sentito un perseguitato, sono stato felice...". Così felice, che quando quelli di Lotta Continua volevano pagarlo si stupiva: "Come, per una cosa che mi rende felice?". Forse farebbe foto alle nuvole come Alfred Stieglitz, dice, o alle pozze d'acqua come Luigi Ghirri, "se mi impedissero di fotografare gli esseri umani", ma gli esseri umani ci sono, e quarant'anni dopo Tano è ancora lì che li insegue, a cercare "immagini capaci di raccogliere qualcosa di impalpabile, come una corda che tiene in piedi tutto".
Anche i più incredibili paradossi, quasi come in sogno, magari quella volta che a un congresso democristiano Aldo Moro lo chiama con un gesto lento della mano, poi poggia la fronte vicino alla sua e in un sospiro incuriosito domanda: "Ma che se ne fa lei, di tante foto?". E adesso? "Adesso, essendo io vecchio, rimango sempre molto molto male quando qualcuno mi racconta la vita successiva dei personaggi delle mie immagini".
Questa per esempio: "Durante un'occupazione di case feci una foto a un bambino bellissimo, che portava un'immensa bandiera rossa. Tanti anni dopo, i suoi genitori mi raccontarono che questo bambino era diventato un piccolo campione di nuoto, ma che un giorno, di colpo, il suo cuore si ruppe. Forse, penso, se non avesse dormito così tanto al freddo, non sarebbe andata così. Mi succede, invecchiando...". Bianco e nero, nero e bianco, sangue e nebbie e cielo. "In un'immagine di reportage usare il colore è come estrarre un linguaggio a sorte". O semplicemente, già tutto è nel bianco e nel nero. La cattiva - e persino la buona vita.

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